foto da web
Per una breve vacanza amo
l’altra costa bagnata dall’ Adriatico! Dirimpetto al Delta. Mare calmo e
profondo. Acqua limpida e salatissima. Mi sembra di tradirlo, ma lui lo sa
quanto io ami l’acqua di scoglio e poi siamo separati solo di qualche miglia.
Distanza marina che ci divide, ma pur sempre unita dello stesso mare. La calda
giornata estiva è mitigata da un leggero maestrale. Ho appena raggiunto il mio
scoglio preferito, quello dell’anno prima e trampolino dei miei maldestri
tentativi di effettuare, una volta nella vita, un vero, dignitoso tuffo in
avanti. Mi assesto con le piante dei piedi sul bordo più esterno del masso. Le
dita si raggrinzano nello sforzo di incollare, a ventosa, i polpastrelli e mi
metto in posizione di lancio, come da precise istruzioni impartite, in anni
precedenti, da un’insegnante di nuoto. Sono ora con le ginocchia flesse, il
busto inclinato in avanti e le braccia tese verso l’alto sulla linea delle
orecchie. Le braccia devono aderire alle orecchie per evitare un impatto violento
al capo. Congiungo le palme delle mani atte a fendere l’acqua e glissare
dolcemente con il resto del corpo.
Sembra facile! Forse per
qualcuno lo è.
L’acqua è lì sotto, a due
metri da me, nello splendore del suo verde smeraldo. E’ appena increspata e so,
per esperienza, che il leggero movimento non fa differenza. So che dentro starò
bene, avvolta dalla sostanza liquida, coccolata, sorretta, alleggerita. Sarà un
abbraccio totalizzante. Dentro, lo sento, troverò un mondo amico che mi
sosterrà e mi restituirà, subito dopo, alla superficie ed alla mia vita
terrestre. Ciò che importa ora è entrare, dare al corpo la spinta adeguata.
L’attrito può essere doloroso. Ogni tuffo riserva un potenziale rischio, ma mi
butto. Vada come vada, io mi butto.
Sono entrata liscia come un
pesce, questa volta. Ho i polmoni ben ventilati e ne approfitto; anziché
rialzare il collo e, con un colpo di reni, portarmi in verticale per risalire,
mi lascio andare ancor più in profondità. L’acqua è sempre più verde e mi
avvolge in un abbraccio languido. Ne sono compenetrata: divento liquida. Mi
giro e rigiro con scioltezza. Il verde è intenso con qualche sfumatura sparsa
data dagli scogli erbosi.
E’ passato del tempo, dovrei
risalire. Invece proseguo in diagonale, sto così bene qui sotto. Lascio uscire
dalla bocca bolle d’aria per compensare la profondità. Mi viene tutto
naturale. Trenta secondi saranno già trascorsi,
penso, altri venti di risalita ed il tempo scadrà. Inizio la verticale. Lo sforzo mi fa capire
che ho tardato un po’ troppo. Vedo la luce che penetra ad imbuto, sopra di me.
Ci sono, quasi. L’imbuto si allarga sempre più rischiarandosi. Sono a corto
d’ossigeno, ma ci sono. Ecco!, ancora una bracciata e riaffioro. Sono ora
dentro il cono di luce, intravedo il sole. Muovo solo le gambe per risparmiare
forze, tanto ormai ci sono! Provo un bisogno urgente di respirare. Non perdo la
calma e deglutisco. Deglutisco la mia anidride carbonica. Ho ancora l’energia
di sorprendermi del fatto che, pur essendo arrivata, non riaffioro. Sbraccio
alla fine e mi catapulto fuori.
Il pelo d’acqua assiste
imperturbato al mio affanno. La luce gioca brillii fra gli spruzzi e l’aria
riguadagna le mie cavità polmonari.
Mio marito, dalla riva, mi
rimbrotta: "Stavo per chiedere aiuto!" "Ma se va tutto bene,
rispondo, a che sarebbe servito?"