Buone Feste
Nou
Carissimi
Ho ricevuto un grande regalo
per Natale da Riccardo Uccheddu. Ha dedicato un post (Qui) alla raccolta dei
miei racconti brevi, anzi brevissimi “Quelli di Borgo Polesinino” (editi in
proprio), racconti che ho avuto voglia di inviargli per Natale dell’anno scorso, ma che fra varie
titubanze sono stati spediti all’inizio
della Primavera. Mi è stato dedicato questo meraviglioso post in cui posso
capire aspetti del mio raccontare di cui non ero consapevole. Soprattutto mi ha
colpita la frase “[…] questo sentimento
di umanità e di giustizia che rifugge dalla retorica, dalla violenza e
dall’inganno perché si desidera ardentemente un mondo più giusto”…
Posso affermare che più di ogni
altro insegnamento sia valso l’approccio al vivere che gli ultraottantenni di
oggi hanno saputo esprimere con il loro esempio agli ultrasessantenni di oggi i quali,
al tempo delle prime vicende che si consumavano a Borgo Polesinino, erano
bambini . E’ un mondo scomparso, quello che racconto. Molti
dettagli si potrebbero aggiungere, ma Riccardo ha tratto una sintesi che rende
pienamente leggibile l’atmosfera e la realtà del tempo e dei fatti narrati.
Non potevo limitarmi al semplice
augurio di Buone Feste agli Amici dopo una così grande attestazione di amicizia
e generosità da parte di Riccardo. Per questo credo sia giusto oltre che piacevole per me togliere
il riserbo e pubblicare la Raccolta per intero. Alcuni testi sono già presenti
in qualche mio precedente post.
E’ il mio regalo di Natale per
tutti Voi ed il mio GRAZIE a Riccardo Uccheddu.
***
Quelli di Borgo Polesinino
Ricordi di vita dal Delta del Po
« Tonino e la Rosa si
sposeranno il mese prossimo », annuncia Antonia alle comari, « novembre non è
poi un granché come mese. Pioverà in continuazione. Le strade diventeranno
fangose, piene di pozzanghere. Non possono rinviare la data perché Rosa è al
sesto mese di gravidanza e tutta la famiglia vuole che la situazione venga
regolarizzata prima della nascita della creatura ».
La madre di Tonino
concorda sulla data ma per lei la questione non è di forma ma piuttosto di
morale, di onorabilità.
« I ragazzi hanno
fatto lo sbaglio, pazienza! », si
confida con le comari, « il figlio di mio figlio dovrà nascere nella casa del
padre: non si può rinviare il matrimonio ad una stagione migliore! ».
La madre di Tonino è
una brava donna, educata secondo gli schemi etici d’inizio Novecento. La sua è
stata un’infanzia infelice per la morte
della madre di spagnola, l’influenza mortale che falcidiò la popolazione subito
dopo la prima guerra mondiale. Allevata dal padre e dalle cognate, nella
numerosa famiglia patriarcale, la sua vita ha avuto un regime di essenzialità
che le ha permesso di elaborare sani e
saldi principi.
« Il bambino,
sentenzia quasi, deve nascere nella casa in cui poi crescerà, per non creargli
troppa confusione ».
Le famiglie
patriarcali, a quel tempo, avevano chiare regole che davano ordine al gruppo
familiare. La regola fondamentale consisteva nell’equilibrare le risorse. Risorse di ordine economico, abitativo,
affettivo. Un nuovo membro si sarebbe aggiunto, sottraendone una parte per poter
crescere. Da grande, a sua volta, avrebbe provveduto a reintegrarle con il suo
lavoro e la dedizione alla grande famiglia.
« Se non potessimo
maritarli per mancanza di soldi, come succede in molti casi, ci dovremmo
rassegnare. Ma, dato che il Signore ci
ha mantenuti in buona salute e possiamo guadagnarci la giornata, sarà bene che
i ragazzi accettino il matrimonio ora, anche se purtroppo siamo quasi in
inverno. D’altra parte, in ogni situazione ci sono i pro e i contro. Per il mio Tonino e la Rosa, il vantaggio sarà di
aggiungere al corredo un bel cappotto nuovo, rispetto a chi sposa nella
stagione calda ».
Così la madre cercava
di sottolineare un aspetto positivo della vicenda d’amore e trasgressione. In
effetti, i matrimoni venivano celebrati all’inizio dell’estate perché si
potesse pranzare all’aperto sotto un pergolato o, per i più fortunati, al
riparo di un porticato.
Le comari trovano
ragionevoli le argomentazioni della loro amica forse pensando che anch’esse,
avendo prole, prima o poi, potrebbero trovarsi in una situazione analoga.
Ogni madre sperava
che la propria figlia giungesse all’altare con l’abito bianco e i fiori
d’arancio, segno distintivo d’ illibatezza, come suggeriva la morale di quei
tempi e come la Chiesa pretendeva.
Era volontà del clero
che le cose seguissero quell’indirizzo.
Per chi disobbediva
alle norme che regolavano l’assunzione dei sacramenti vi era la scomunica; anche
Rosa l’avrebbe rischiata se non avesse rivelato al parroco il suo stato per
evitare le “giuste” conseguenze.
Per lei, con un
figlio in grembo, l’abito bianco era escluso. Doveva essere ritenuto il giusto
prezzo da pagare per non aver aspettato che la Chiesa desse il consenso
all’unione carnale con il suo Tonino: era la penitenza da subire per la
fornicazione commessa.
Rosa era una buona
ragazza, lavoratrice e timorata di Dio. Non aveva ancora vent’anni e amava
Tonino già da parecchio tempo.
Interrogata dalla
madre su ciò che era accaduto, si difese adducendo, con tanta vergogna, la
scusa che lei non avrebbe voluto, ma che era stato Tonino ad insistere troppo.
Tonino, dal canto
suo, superava l’imbarazzo aiutato dall’orgoglio maschile che lo rendeva fiero
di essere in grado di amare la sua Rosa e di procreare.
La ragazza si sentiva
pronta alla rinuncia. In fondo, non avrebbe avuto l’abito bianco, una giornata
assolata, una cerimonia in orario centrale, però, aveva già il suo bimbo dentro
di sé, il suo Tonino che mordeva il freno e trovava tutto ciò pienamente
gratificante.
Il ragazzo accettava ogni
cosa di buon grado. D’altronde per lui non si profilavano grossi cambiamenti,
avrebbe continuato a vivere nella casa paterna, con le abitudini di sempre. Era
Rosa a subire il vero cambiamento e ciò che ne conseguiva.
Tonino si rendeva
conto che avrebbe semplicemente dovuto lavorare di più, ora che la famiglia
sarebbe aumentata, non tanto per Rosa, che lei si manteneva da sola, ma per il
figlio che sarebbe nato dopo qualche mese.
Lui faceva il
muratore, però non sempre c’erano case da costruire o da riparare. Doveva perciò
adattarsi a lavori di ogni genere. In questo era affiancato da Guido, suo
grande amico e compagno di lavoro.
Per arrotondare le
magre risorse, facevano delle intere nottate di pesca, come quella memorabile
in cui si avventurarono in Valle Ravagnan, dove riempirono di rombi,
sogliole e passere le loro barche.
Erano partiti, subito
dopo cena, assieme ad un pescatore esperto, conoscitore della valle, disposto
ad aggirare la sorveglianza del custode.
La valle era molto
estesa, ma il pescatore conosceva i possibili percorsi del guardiano.
Fra i canneti, le
barche, strusciavano lievi. Lì, bastava staccare il remo dalla forcola e
affondarlo di fianco od a poppa, sul fondo melmoso, per avanzare.
Le anatre, nei loro
anfratti, starnazzavano indispettite al loro passare. Attraversarono un dedalo
di piccoli canali che si allargavano qua e là in anse e laghetti, per poi
sfociare in acque aperte come quelle del mare, ma che, a differenza di quelle,
si presentavano molto più quiete e leggere.
Tutta la valle si
cullava stretta nell’abbraccio della notte rilucente di stelle. La luna piena
ammiccava sorniona, presagendo la buona sorte ai tre uomini che, ognuno sulla
sua barca, remavano verso la meta prestabilita.
Vi giunsero dopo
un’ora di voga che sommata alle due ore di bici, faceva una bella sfacchinata.
Ma erano giovani e l’entusiasmo
neutralizzava lo sforzo.
Tutto sembrava
irreale, magico, in quella notte.
La condizione era
propizia, ai pescatori di frodo: il guardiano era stato evitato ed i pesci erano così numerosi che non usarono i
consueti arnesi, ma si calarono
direttamente in acqua muniti dei retini.
In un momento la
quiete si trasformò in tumulto: i pesci si divincolavano fra le maglie, dando
forti strattoni con le pinne caudali, agitando le acque. Ma, le reti furono
trattenute da mani ferme e, in men che non si dica, gli uomini, riempirono le
barche di ogni ben di Dio.
Il pescatore
veterano, ebbe paura che il guardiano
sopraggiungesse richiamato da tutto quel trambusto.
« Presto! »,
esortava, e poi « zitti! », intimava; non si sa bene se ai ragazzi o ai pesci.
Le anatre, impaurite,
presero a strepitare in coro. Le garzette a volteggiare attorno alla chioma dei
salici. La civetta cambiò di trespolo.
Il veterano, a quel
punto, ordinò a Guido di sospendere la pesca poiché si capiva chiaramente che
non aveva alcuna intenzione di mollare le prede che gli saltellavano attorno,
in una provocazione insostenibile.
« Non vedi che la tua
barca è stracolma?, vuoi forse affondare tornando? », intervenne Tonino. Allora
Guido si convinse, anche se a malincuore, a prendere la via del ritorno. Lui
voleva racimolare un grosso bottino per la consuetudine, che animava gli uomini
del borgo, di dividere il prodotto delle razzie notturne fra tutti; così
facendo – pensava - se ne sarebbe fatta una scorpacciata da ricordare per un
bel po’.
Ormeggiate le barche
vicino all’argine di valle, inforcarono le bici e, sotto il peso dei cesti
ricolmi, pedalarono verso casa.
Il ritorno fu più
lungo e faticoso, sia per il maggior carico, sia per la stanchezza avvertita
ormai in ogni fibra muscolare. Il fisico era provato, ma il morale si manteneva
alto, sostenuto da un indomabile entusiasmo.
Il bello, la
soddisfazione più grande doveva ancora arrivare. Si prefiguravano già il volto
dei loro parenti, amici, conoscenti, alla vista del pesce.
Già lo sapevano che
ci sarebbe stato un viavai di donne e uomini con i propri panieri sottobraccio,
approvvigionati della quantità sufficiente a riempire le pance dell’intera
famiglia. Si sarebbero visti i loro volti rilassarsi e pian piano illuminarsi
di gioiosa gratitudine.
Tonino e Guido non
avrebbero preteso compensi. Vigeva la cultura dello scambio a Borgo Polesinino.
Chi aveva di più, dava a chi aveva di meno e la Provvidenza avrebbe mosso,
sapientemente, le pedine necessarie ai bisogni dei pochi abitanti.
Non vi sarebbe stata
ombra di rimprovero per la frode perpetrata dai giovani, perché le scorribande
erano giustificate dalla durezza della
vita che non sempre offriva un buon pasto da consumare.
All’arrivo dei due
amici, iniziò subito un passaparola con i ragazzini come messaggeri e, in un battibaleno,
tutti seppero dell’avvenimento. Incominciò un gran lavorio. Quel giorno il
paesino profumò di buono e, sia a pranzo che a cena, si diffuse un vasto profumo
di polenta che accompagnava i piatti di fritto e di arrosto alla brace.
« Senti Guido, che
profumo nell’aria! ».
« Sento, sento! »,
rispondeva Guido, « se fosse stato per me, avrei svuotato la valle! ».
« Non ti accontenti
mai! », lo rimproverava Tonino, « assapora
il momento di grazia e sentirai la gioia inondare l’anima! ».
A queste disquisizioni romantiche Guido
rispondeva sempre con petulanza.
« Mah!, valà! Bello,
valà! Che queste son tutte “monade”! », te lo dico io, ché son concreto, che
quando è il momento…, è ben quello il momento di…, approfittarne! ».
« Ne abbiamo
approfittato infatti!, ma devi tener conto del detto “chi troppo vuole, nulla
stringe!”, il quale è una massima sacrosanta! », osservava prudentemente
Tonino.
« Ma lascia perdere,
ti dico!, tu metti sempre la paura davanti al coraggio e viaggi sottobraccio
alla prudenza! ». « Lasciati dire “chi non risica, non rosica!”, bisogna che tu te ne renda conto », incalzava
Guido.
« Mi rendo conto che
non bisogna mai esagerare! », ribadiva convinto l’amico.
Tonino era
riflessivo, cercava sempre l’equilibrio nelle cose. Guido, al contrario, era
impulsivo e impetuoso, agiva prima di riflettere.
Anche nello
svolgimento del loro lavoro di muratori, la diversità d’indole risaltava.
Tonino impiegava più tempo ma la sua costruzione risultava sempre ben rifinita
ed estremamente solida, poiché nel
preparare l’impasto di cemento, di calcestruzzo, per le intelaiature, le gabbie
di ferro, rifaceva due volte i calcoli e, nel dubbio, metteva un ferro od una
cazzuola di cemento in più. Nel misurare i fori nel muro perimetrale non gli
succedeva mai che uno fosse di dimensioni
non prestabilite.
Guido allineava
mattone su mattone con sufficiente perizia e vigore, ma senza troppe
misurazioni, affidandosi al “colpo d’occhio” ovvero all’esperienza. Gli bastava
sovrapporre i materiali per poi avere il risultato di una casa completata.
Per questo motivo
avevano spesso vivaci discussioni, durante il lavoro e qualche parola di troppo
sfuggiva dalle loro bocche, ma erano animati da una salda amicizia e gli
occasionali diverbi si dissolvevano nell’aria senza lasciare traccia.
Rosa, assieme alla
madre, si occupava della lista degli invitati. Quasi tutti gli abitanti di
Polesinino vi erano elencati. Ai primi posti figuravano i “compari d’anello” ossia
i testimoni e poi, via via, tutti gli zii, i cugini in primo e secondo grado,
gli amici e vari conoscenti. Naturalmente non poteva mancare Bociacia con la
sua fisarmonica, né Gigifèro per le sue scenette comiche che avrebbero
rallegrato i convitati fra una portata e l’altra. In base alla lista finale, ci
si doveva regolare sul numero dei capi di pollame, dei chili di manzo, di
quanti pentoloni chiedere in prestito, di prenotare il forno del panificio per
cucinare gli arrosti. Erano tante le cose di cui tener conto. Rosa era ansiosa
di sottoporre la lista dei nomi a Tonino affinché egli aggiungesse i suoi ed
incominciare così, senza indugio, i reali preparativi.
Per fortuna che ai
bolliti ci pensava Marina, che tutti chiamavano affettuosamente Mari, con il
ruolo di cuoca incaricata speciale di tutti i banchetti nuziali, in quanto
provvista di lunga esperienza nell’ organizzare convivi per ogni circostanza,
presso i notabili di zona.
Prestava la sua opera
gratuitamente, era il suo regalo agli sposi, soleva affermare.
In realtà amava molto
prestarsi per i pranzi di matrimonio. Non avendo mai potuto realizzare il
proprio, godeva nel vedere tante giovani coppie poterlo fare.
Tutti sapevano della
sua storia d’amore con Cesare Barbana,
proprietario terriero, per il quale s’impratichì nell’arte culinaria e
nella conduzione domestica della casa padronale.
Lo amò per diciotto
lunghissimi anni. La storia incominciò quando era ancora adolescente, giovane
donna quindicenne. Il signorotto era allora trentenne, figlio unico. I genitori
avevano riposto grosse aspettative sul suo avvenire ed erano, perciò, ostili
alla scelta del figlio a causa delle umili origini della ragazza. Contrari
erano pure i genitori di Mari perché temevano, giustamente, che nessuno sbocco
positivo si profilasse per la propria figlia.
Ma Mari era
innamorata e a nulla valsero le proibizioni dei suoi. Per raggiungere il suo
amato lasciava, di soppiatto, a notte alta la propria casa, per raggiungere
quella di lui sebbene dovesse attraversare a nuoto un canale.
Erano notti estive
quelle in cui, quatta quatta, sgattaiolava attraverso i campi fino al canale.
Preferiva le notti buie di novilunio, per non essere intravista da qualche
pescatore notturno o da qualche nottambulo.
Si guardava attorno
con circospezione, soprattutto quando giungeva al punto di attraversamento dove
si svestiva per non bagnare gli indumenti. Li raccoglieva in un fagotto che
teneva alto sopra il capo, mentre con l’altro braccio nuotava per guadagnare la
riva opposta, qualche metro più in là.
Il silenzio era rotto
solo dal fruscio di lepri rincorse dalle faine o dal tuffo delle rane
spaventate che si immergevano fra la vegetazione palustre.
Nelle notti
illuminate dalla luna, si sentiva molto più brulichio, appena interrotto, o
anche, intensificato, al suo passaggio.
Era piacevole quel
bagno notturno che le rinfrescava la pelle e le toglieva ogni stanchezza, ogni
incertezza. Qualche brivido di paura poteva attraversarle la schiena, quando
temeva di essere sorpresa e quindi scoperta del suo segreto.
« Ciao la mia bella!
», fu il saluto affettuoso di Mari per Rosa.
« Mi ha detto tua
mamma che ti dobbiamo preparare il pranzo di nozze! », così dicendo Mari
abbracciò la ragazza, dandole due baci di buon augurio.
« Sì, Mari, la
ringrazio! », rispose Rosa riconoscente.
« Avrà saputo che
sono in attesa? », si affrettò subito a dire, accennando così all’argomento che
l’affliggeva e che, senza dubbio, era già risaputo, essendo il suo stato
abbastanza evidente.
« Sai, Rosa, che le
voci corrono, non te ne devi preoccupare!, anzi devi ricordare, sempre, che i
bambini sono una benedizione del Signore ».
Così era Mari,
affettuosa e generosa, sapeva sempre dirti una parola di conforto. Rosa si
soffermò per un attimo a riflettere su come poté essere stata la giovinezza di
quella donna, ora di aspetto maturo, negli anni trascorsi alla “corte”, ossia
presso la tenuta dei Barbana.
L’azienda occupava
quasi tutti i braccianti della zona, era un possedimento molto vasto. Vi coltivavano cereali, barbabietole da
zucchero e vi allevavano numerosi bovini.
Mari, al principio
non si rendeva conto della sua posizione, era semplicemente ed esclusivamente
una ragazza innamorata, che sfidava ogni difficoltà non senza una certa dose di
incoscienza.
Fino a quando il suo
uomo visse con i genitori, i loro incontri erano sporadici e segreti. Dopo la
morte dei suoi, Cesare, il signorino, si
trovò disorientato, soprattutto senza la madre che si era sempre occupata del
buon andamento della casa e si appoggiò sempre di più a Mari. La convinse a
trasferirsi alla Tenuta. La giovane donna rispose con la sua consueta e
generosa disponibilità. Lo amava troppo per negargli qualsiasi cosa.
Così Mari si ritrovò
immersa nella nuova vita.
Con il tempo si rese
conto che non poteva sottrarsi dall’assumere un proprio ruolo. La piccola
comunità, che non era certo bigotta ma che aveva un suo codice etico, lo
richiedeva e, in fondo, anche il suo amor proprio lo esigeva. Non si poteva
ignorare la legge morale a cui tutti si attenevano. Legge in uso in quelle zone
agricole e vallive, per la quale si dovevano rendere palesi le scelte che
avevano un’implicazione sociale. Il tacito benestare dei compaesani valeva
ancor più del consenso ecclesiale.
Così si calò in quello
della “Signora”, pseudo moglie. Si ripromise che tale impegno sarebbe durato
finché il rampollo Barbana non l’avesse rispettata in quella veste, dato che di matrimonio non
ne voleva sentir parlare. L’uomo voleva conservare la sua libertà, la ragazza
lo capiva a malincuore, ma avrebbe vigilato e non gli avrebbe mai permesso di
abusarne coltivando altre avventure amorose.
Si occupava della
casa padronale con molta perizia, onestà e diligenza; si comportava come fosse
la sua vera casa, fino al punto di affezionarvisi.
Rinfrescava la
biancheria con frequenti lavaggi; riordinava gli armadi; lucidava a specchio
mobili e pavimenti. Traeva una sensazione di appagamento mentre passava in
rassegna le varie stanze, notando ogni oggetto al suo posto e nell’ odorare il
profumo di lavanda dei sacchettini di lino, da lei stessa ricamati, appoggiati qua e là, diffondersi
nell’ambiente: fragranza delicata e fresca.
Ora tutti conoscevano
il suo ruolo che, seppur precario e molto di comodo per Cesare Barbana, aveva
il pregio della trasparenza. Era apprezzata per questo, e per il rigore che
caratterizzava la sua vita domestica: ora tutti
le portavano rispetto.
Il Barbana sapeva di
avere a che fare con una donna dignitosa: «
Molto più dignitosa di me! », spesso
pensava.
Lui era un gaudente,
superficiale, di labili sentimenti e tralasciava ogni buon proposito subito
dopo averlo formulato.
Amava troppo la bella
vita: spendeva e spandeva! Vale a dire che il suo agire era un compendio di
esagerazioni. Ma era bello! Davvero un bell’ uomo! Il suo sguardo accattivante
incantava le donne.
Mari non sapeva
resistergli: era quella la sua debolezza! Avrebbe dovuto maltrattarlo, a volte,
rifiutarlo, invece, sempre lo accoglieva fra le bianche lenzuola di lino
fresche di bucato.
Lui le si avvicinava
cosciente del suo fascino. Con l’espressione ruffiana di chi ha molto da farsi
perdonare e consapevole già del perdono che Mari non avrebbe saputo negare.
Sapeva chiaramente di
essere per lei tutto il bene della vita, ma giocava con la debolezza del suo
cuore, dei suoi sensi: «Senza di te non saprei vivere… », le sussurrava insinuante.
Nell’udire quelle
parole, Mari, perdeva ogni difesa. In fondo all’anima ne percepiva la falsità,
ma non poteva lasciar emergere quella percezione. Con un profondo sospiro di
accettazione socchiudeva gli occhi ricambiando l’abbraccio con le sue forti
braccia divenute, improvvisamente, docili e molli attorno alle spalle di lui.
Mari vedendo Rosa pensierosa volle distrarla raccontandole
un suo antico desiderio.
« Magari avessi avuto
anch’io dei figli durante la convivenza con Cesare Barbana! », le disse, «se
questo fosse accaduto forse oggi sarei una donna sposata, avrei la mia
famiglia. Ma figli non ne sono arrivati! Il Signore, a me, non li ha voluti
mandare… ».
« Ti ripeto di non
badare alle chiacchiere, esse sono inevitabili! ».
« Pensa a quanto non
avranno spettegolato su di me, quando il Barbana si è messo con la Maestra!, d’altronde
io sono stata coerente con me stessa e, quando ho finito di essere l’unica
donna per lui, me ne sono andata lasciandolo definitivamente! Ho dovuto dare un
taglio netto! Non è stato facile! Con lui ho vissuto gli anni migliori, i più
importanti della mia giovinezza. Con lui ho conosciuto la gioia ed il dolore
ma, soprattutto, ho vissuto l’amore: uno sconfinato amore! Ma allorché una
storia d’amore finisce, non resta che prenderne atto e rassegnarsi! », disse
Mari con distacco.
Rosa, nell’ascoltare
la donna, assunse un’espressione triste
e un po’ imbarazzata. A quelle confidenze, che
avevano il solo scopo di confortarla e dimostrarle comprensione, non
seppe trovare parole adeguate. Ma Mari era loquace e istintivamente la tolse
dall’impaccio:
« Io non rimpiango,
né rinvango il passato! », proseguì, « si vede che così era destino per me! Non mi
resta che accettare il volere di Dio nel quale confido e credo: ho tanta fede
in Lui! », concluse.
Poi proseguirono la
conversazione concentrandosi su argomenti pratici, soppesandoli nei minimi dettagli.
Quando sembrò loro che le varie fasi del ricevimento avessero preso forma, Rosa
si riservò di fornire il numero esatto dei partecipanti, dopo aver consultato
Tonino.
Il ragazzo poteva
recarsi dalla fidanzata in una di quelle sere denominate “di morosa”, visite
permesse di solito il giovedì e la domenica sera dalle famiglie perché,
prevedendo l’incontro, si sarebbero organizzate meglio per il filò dei fidanzati.
Quel giovedì, Rosa
aspettò con impazienza l’arrivo di Tonino. Indossava un vestitino di flanella
marrone con il corpetto che tratteneva due profonde pieghe sul davanti, cucite
appena sotto la linea del seno, che ricadevano aprendosi leggermente lungo i
fianchi. Un collettino di piquet beige ricamato a punto intaglio dava risalto
al suo viso dalla pelle ambrata.
Quella sera Tonino fu
particolarmente colpito dalla bellezza
di Rosa, forse perché la gestazione le aveva addolcito i lineamenti o
forse per la passione con cui viveva l’attesa. Fu ancor più colpito rispetto
alla sera in cui, al loro primo ballo, si guardarono scoprendosi innamorati.
Aveva solo sedici
anni quando al dancing Esperia di Ocamarina la vide, come se fosse stata la
prima volta, seduta al tavolo vicino alla madre ed alcune amiche.
Rosa festeggiava il
suo quattordicesimo compleanno. Era raggiante di felicità, per trovarsi lì, con
il suo vestitino nuovo, con l’orchestrina che suonava motivetti che aveva
sentito solo per radio.
« Permette questo
ballo, signorina? », le chiese Tonino,
inchinandosi leggermente verso di lei.
« Si, con piacere! »,
gli rispose Rosa, alzandosi e andandogli incontro, emozionata e sorpresa.
« Tonino, mi hai dato
del lei!» , sgranò gli occhi divertita.
« Ci conosciamo da
sempre e mi hai dato del lei, devo fare altrettanto? ».
« Ma no! Certo che
no! E’ la formula d’invito che lo richiede, una semplice frase di cortesia!
», rispose Tonino cercando di darsi un
certo contegno, da uomo mondano, ma avvampando dalla fronte al collo, fino
all’orlo della camicia. Gli occhi di Rosa s’inumidirono di gioia intensa nel
sentirsi cinta amorevolmente nella danza: il bel castano dell’iride punteggiato
di pagliuzze dorate si velò nell’espandersi di quell’emozione. Compresero che
non erano più i compagni di sempre. Lei chiuse gli occhi e si lasciò
trasportare leggera come una nube sospinta dal vento.
Così la rivede Tonino
mentre Rosa gli sottopone la lista degli invitati: emozionato, ora.
Quasi tutti gli
abitanti di Polesinino erano elencati. Prima i “compari d’anello” e poi via via
tutti gli zii i cugini di primo e secondo grado, gli amici e conoscenti vari.
Naturalmente non dovevano
mancare Bociacia con la sua fisarmonica per accompagnare le danze e Gigifèro
per le scenette comiche che sapeva improvvisare.
Bice aveva sognato
per la figlia ben altra cerimonia. Ma già sapeva che il Parroco era di
carattere rigido: applicava alla lettera ogni direttiva vescovile. Però a Bice sembrava che i provvedimenti, che la
comunità parrocchiale doveva subire, senza possibilità di verificarne la
legittimità, fossero troppo severi.
« Se almeno riuscissi
ad ottenere un orario decente per la Messa? », si chiedeva speranzosa.
Cercò di parlarne con
Don Mario, un giorno, dopo una delle celebrazioni quotidiane.
« Don Mario, lei sa
bene che la mia Rosa è una brava ragazza! », esordì la donna. Ma Don Mario, da prete
navigato com’era, capì subito dove la madre voleva parare, per cui la
interruppe prontamente:
« Gentile signora, io
non lo metto in dubbio! », e colpendo subito nel segno continuò:
« Sua figlia non ha
osservato uno dei dieci comandamenti ed è in peccato mortale! ».
« C’è la confessione
per questo e mia figlia è veramente pentita! », incalzò a sua volta la donna,
per niente intimorita.
Il prete intuendo la
forte carica emotiva della madre, assunse
un tono più conciliante e quasi lamentevole:
« Non basta! Lo
sapete bene benedetti cristiani! Oltre al sacramento della confessione ed al
giusto pentimento, senza il quale la confessione non avrebbe valore, ci vuole
la penitenza! ».
Bice era forte della
sua buona coscienza e, in qualche modo, si sentiva garante anche per quella
della figlia, ma quel prete così distante dal loro problema le provocava
sdegno.
« Non le sembra che i
ragazzi ne troveranno, in futuro, di penitenza da scontare con presto una
famiglia sulle spalle?, o crede, lei, che solo gioie ci siano in serbo per
loro? », disse tutto d’un fiato.
Il tono di Bice era
stato aspro e quasi di sfida verso l’uomo di condizione privilegiata che, come
uomo di Dio, avrebbe dovuto essere umanamente vicino alla povera gente, ma che
sembrava contro di loro, in quanto rappresentante della Chiesa.
« Non so cosa
risponderle, cara signora Bice, e neppure cos’altro fare perché sono stati i
ragazzi a mettersi nei pasticci! », disse il prete, e se ne lavò le mani come Ponzio Pilato.
« Certo che il
pasticcio è stato combinato dai ragazzi, comunque noi siamo abbastanza grandi
per sapere che tutto questo peccato non c’è. Hanno seguito una legge naturale:
che male c’è in tutto questo? Il vero matrimonio è la coppia che lo celebra, lo
dite anche voi, e la Chiesa serve solo a sancirlo, a prenderne atto. Dovrebbe
premiare la Chiesa, non punire, differenziando il trattamento fra quelli che
fanno i “furbi”, sa bene a cosa
mi riferisco, e quelli che agiscono
senza malizie; sappiamo bene come gira il mondo, non le pare don Mario? », lo interrogò
la donna.
Don Mario indugiò, perplesso, poi si trincerò in un muto
silenzio, nel quale Bice cercò di penetrare, cambiando registro, quasi
pregando:
« Non pretendiamo una
messa solenne, ma almeno, potrebbe fissare l’orario della cerimonia alle dieci
anziché alle otto del mattino, data la stagione pressoché invernale? », domandò
in extremis la madre, già con il sapore amaro della sconfitta in bocca.
Il prete fu
irremovibile, forse a causa del moto di ribellione della donna malamente
celato, o, più semplicemente, perché non voleva rischiare la sua tranquillità
pastorale.
Bice si avviò verso
casa amareggiata ed anche risentita con
quel prete esecutore burocratico e senza cuore per loro.
Non ne fece parola
con nessuno, per non esacerbare gli animi, ma per diversi giorni rimuginò su
quel colloquio.
« Se fossimo dei
ruffiani, dei maldicenti, come tanti sempre là, da lui, a raccontare i fatti altrui,
forse la sua severità si ammorbidirebbe. Se gli avessimo sempre regalato una
bella “sopressa” per Natale, ora ci terrebbe di più in conto. Se avessimo
qualche importante conoscenza, sicuramente la mia Rosa non verrebbe messa così
alla gogna: cerimonia alle otto del mattino! Neanche si fosse noi dei
delinquenti! ».
Questi erano i
pensieri carichi di tensione, che Bice non riusciva più a dissimulare, fino al
punto che anche Gildo, suo marito, ne ebbe sentore.
« Bice, da qualche
giorno ti vedo preoccupata e nervosa, cosa ti succede mai? », si risolse a
chiedere Gildo.
«Nulla, nulla di
grave, stai tranquillo!, solamente non mi so dare pace del fatto che la nostra
Rosa non debba avere una cerimonia di nozze degna di lei.
Bice non aggiunse
altro ma nella sua mente proseguì con l’espressione: « Per colpa di quel
fetente del prete!, quel don Abbondio e Ponzio Pilato messi assieme! ».
Non riferì nulla del
suo tentativo fallito per non umiliarsi ulteriormente, ma soprattutto per non
angustiare il marito.
Gildo era mite d’indole,
come la figlia che in questo gli assomigliava molto. Pregò la moglie di non
prendersela così tanto a cuore.
« I ragazzi non fanno
caso a queste piccolezze! », asserì
l’uomo, « e gli invitati non se ne ricorderanno a lungo, perché il ricevimento
sarà memorabile. Il nostro buon vino metterà allegria ed esalterà l’eccellente
pranzo che Mari avrà organizzato. Vedrai che bella festa ne uscirà! Resterai
sorpresa tu stessa! », la rassicurò con entusiasmo il marito.
Gildo vedeva le cose
dal lato pratico e con una certa dose di ottimismo. Aveva sopportato anni di
guerra e di prigionia, non si scoraggiava certo per una avversità di tal sorta.
E così fu.
Gli invitati
arrivarono tutti per tempo. Gli uomini con il cappello e le donne con un
foulard di lana colorato annodato stretto sotto il mento. Gli uomini con i
confetti in tasca e le donne nelle borsette.
Don Mario pronto in
chiesa a celebrare.
La Rosa e Tonino con
l’espressione magnifica della felicità.
I bambini della
scuola elementare fuori sul sagrato dirimpetto l’argine del Po, in attesa degli
sposi e dei confetti che sarebbero stati lanciati per aria, all’uscita di chiesa.
Mari fra i pentoloni
e tutte le vivande.
Le comari a preparare
la tavola all’osteria che quel giorno era adibita a ristorante.
Bociacia che
all’arrivo della coppia avrebbe intonato l’Ave Maria di Schubert, perché in
chiesa il prete non lo aveva voluto: troppo gaudio!
Gigifèro di già in combriccola con i compari si ripassava
mentalmente le varie scenette comiche da recitare negli intervalli delle
portate e più tardi, dopo il pranzo, fra un valzer e una mazurka
I genitori degli
sposi con qualche lacrimuccia di commozione.
Non mancò nulla in
quel giorno di matrimonio, come Gildo aveva previsto e la Bice, risollevata,
ammiccando con la consuocera Antonia un
gesto di felice complicità fra famiglie… « Evviva gli sposi! », ha gridato spesso fra gli applausi di buon augurio e allegria di tutti gli
intervenuti.
Gildo si sentiva
beato nel vedere la sua Rosa ancor più bella di una rosa, con quella tenera
rotondità del grembo, vicina al suo amato Tonino e si sentiva addosso la fretta
di diventare nonno.
« Speriamo sia femmina! », si augurò.
Tempo d’Estate
L’estate era una grande stagione in quel di Borgo
Polesinino.
Ancora oggi, se Nara chiude gli occhi e lascia andare la
memoria a quel tempo, può riprovare le stesse sensazioni ed emozioni delle
corse sfrenate, le grida risuonanti nell’aia, fra la casa e la barchessa.
Ricorda il profumo del grano maturo della campagna
coltivata, avvolgere le case, i cortili, entrare nelle cucine, nella penombra
delle camere da letto. Una calura languida intorpidiva i sensi e la volontà
nelle assolate ore pomeridiane. La polvere del suolo appariva candida trafitta
dal bagliore solare. Di paglia sembrava il tappeto d’erba sulla sponda
dell’argine dalla terra arsa. Solo la fila di querce che delimitava la Calà del
Mulin marcava di un verde intenso l’orizzonte.
Di tanto in tanto un soffio di leggera brezza marina, che
puntualmente ogni pomeriggio si levava,
giungeva lieve, carezzevole.
Nara, custode della grande casa, nelle prime ore
pomeridiane dedicate al riposo, sentiva la vita vibrare nell’apparente
immobilità. La sua innocenza non era incosciente.
Le coppie nell’intimità della loro camera forse stavano
preparando un nuovo bambino. Le ragazze ed i ragazzi a ridosso dei muri
ombreggianti, forse, progettavano l’indomani. Qualcuno, dopo l’abbondante
pasto, dormiva: dovevano essere gli anziani,
perché il loro ronf ronf echeggiava fra le mura di casa,
raggiungendo il cortile, attraverso le
finestre socchiuse.
Chi non si ritirava aveva il compito di dare la sveglia
all’ora stabilita, ed era lei, Nara, che soleva destarli.
Aveva qualche faccenda domestica da sbrigare prima di
potersi dedicare ad un qualsiasi passatempo.
Fra le diverse incombenze c’era quella di liberare la
casa e l’adiacente bottega dalle mosche che odiava. Ce n’erano molte a causa
della vicina stalla dei Bardin.
Succube della forte avversione, Nara perpetrava una
sadica vendetta sugli insopportabili insetti. Essi sapevano essere così noiosi
ed insistenti nelle loro molestie che
nella sua mente infantile, non ancora avvezza ai compromessi ed alla
tolleranza, c’era solo un esasperato senso di giustizia. Le mosche
trasmettevano sporcizia e malattia e non cessavano di posarsi ovunque: dovevano
morire! Per le mosche collocava trappole in ogni angolo. Nastri di colla pendevano
dal soffitto, ciotole di acqua zuccherata posate sui mobili.
Una pompetta per il flit le fu data in dotazione: arma
letale di uno 007 con licenza di uccidere.
Irrorava il negozio e la cucina del gas mortale così che
quelle stramazzassero al suolo, sui banchi , sugli scaffali. Dopo qualche
minuto e prima di fare la stessa fine, Nara riapriva le imposte e cominciava
un’accurata pulizia dei locali.
Le più forti sopravvivevano e beffarde sfidavano la
carnefice posandosi sulla sua fronte, sul collo, sulle braccia, sfuggendo ad
ogni smanacciata. Quando raggiungeva il limite della sopportazione, Nara
tendeva il suo tranello mortale per prevalere su quelle bestiacce mille occhi.
Un po’ di zucchero bagnato sul tavolo e, zacchete!, la
mosca che si tuffava sull’irresistibile leccornia, veniva inesorabilmente
incapsulata dentro un bicchiere capovolto.
Per far capire alla mosca che poi tanto furba non era,
Nara la spaventava battendo forte un cucchiaino sul vetro. Per un po’ la mosca
volava disorientata alla ricerca di una via di fuga, poi diventava rabbiosa e
voleva sfondare la parete trasparente con delle capocciate che la tramortivano.
Tentava una rimonta, vibrando le piccole ali
fino all’inverosimile, ricapitolando, subito dopo l’immane sforzo,
esausta. A volte, la ragazzina si muoveva a compassione e liberava la povera
martire, altre volte, ahimè!, l’insetto soccombeva.
Da adulta, Nara si è ritrovata spesse volte a ripensare
alla ferocia riversata sugli insetti che non facevano altro se non essere se
stessi, se non di esprimere la loro totale ed intima essenza.
Nessuno si era mai curato della vita o della morte di una
mosca, né di un ragno, di un gatto o di un cane. Al cane veniva gettato qualche
scarto di cibo, ma che si arrangiasse a trovare riparo sotto una tettoia od
un anfratto naturale; al gatto niente
scarti, perché doveva sfamarsi cacciando i topi che si annidavano vicino alle
abitazioni. A loro ci pensava l’ingenua sensibilità dei bambini che,
trasgredendo, accudivano di nascosto le bestiole.
Lungo l’argine
Due frasi del romanzo Scano Boa, affiorano alla mente di
Nara osservando la corrente del fiume, durante le sue frequenti corse in bici lungo
l’argine del Po.
“La giornata era limpida e la terra odorava spossata
dalla furia del temporale, che aveva reso ancor più torbida e gialla l’acqua
del fiume. Il mare in lontananza sembrava d’oro e palpitava fra la nebbia che
si dissolveva leggera, mentre la corrente schiumava in bocca dalla rabbia.”
Per Nara sono le righe più
poetiche e piena di forza a rappresentare il grande fiume: amato e temuto.
Presenza inconsapevole di ogni espressione degli abitanti di Polesinino.
Dalla lettura del romanzo
ambientato nell’estremo lembo del Delta, le risuonano i racconti degli anziani
del luogo e rivede l’osteria
di nonno Duilio, dove un bancone e pochi tavoli riempivano il locale.
Alle pareti incalcinate due attaccapanni appesi.
La solitaria immagine di Cristo, nel quadro appeso sopra
il bancone, di fronte all’entrata: mostra il cuore sanguinante in petto
sorretto dalla Sua mano.
Il nonno stesso, le ricorda l’oste incontrato da Sospiro,
il protagonista del romanzo di Gian Antonio Cibotto. Gli è, in qualche modo,
somigliante: sia per il mestiere; sia per i tratti somatici comuni; sia perché
entrambi pativano l’asprezza dell’ambiente avaro di risorse, la durezza del
vivere. Il loro volto era contrassegnato da una rete di venuzze bluastre,
sostenute dalle gote paffute, che mettevano in risalto gli occhi verdi d’acqua
palustre.
Come i due osti, molte persone soffrivano di capillari
congestionati a causa degli sbalzi di temperatura cui erano soggette: il
riscaldamento era limitato alla cucina. E dal bere quel bicchiere di vino che
dava calore e forza e un po’ di euforia. Qualche abitudine discutibile le
caratterizzava, come lo sputare per terra.
Il pavimento in cotto dell’osteria del nonno Duilio,
mattoni della fornace di Contarina, era pieno di scarcai, dense espettorazioni,
vicino agli angoli dei tavoli a cui solevano sedere gli avventori per giocare a
madrasso, tresette o briscola. E c’è da aggiungere che bestemmiavano. Non
sempre l’animo era coraggioso. Quando i periodi difficili duravano troppo a
lungo, le persone reagivano con violenza e, non vedendo che esseri inermi e
situazioni irrisolvibili attorno a loro, se la prendevano con il Padre Eterno,
padrone degli eventi.
Sovente si lasciavano trascinare dall’ira, cadendo in
fantasiose imprecazioni definite dalla Chiesa bestemmie.
Tutti bestemmiavano! Anche il nonno, il padre, gli zii,
in breve tutta la popolazione maschile di Polesinino, incluse alcune donne,
anch’esse bestemmiatrici contro la sorte, indirizzando le ingiurie verso il
Signore, Cristo, Dio.
Nel tempo si radicò, così a fondo, questa pratica che
diventò consuetudine; anche se avessero saputo con chi prendersela, Dio
rimaneva il referente privilegiato di un irrispettoso intercalare. Fra una
proposizione e l’altra, il suo nome non veniva mai lasciato da solo; egli era,
secondo la circostanza, accompagnato da buono, caro, santo, benedetto, bello,
bambino, vecchio, bestia, cane, “bosgato” e via di seguito. La bestemmia che
più spaventava Nara, era quella accompagnata dall’aggettivo “ludro”, che più
tardi nel tempo, scoprì significasse “maiale imbrattato di escrementi”, proprio
la peggiore di tutte. Questi intercalari erano entrati nella mente della
ragazzina e frullavano, frullavano… Lei
non voleva ricordarli, ma più cercava di scacciarli, più loro la disturbavano
specialmente nel periodo della preparazione ai sacramenti della Comunione e
della Cresima. Era uno dei dilemmi che non era riuscita a risolvere riguardo
alla Confessione: il fatto che li pensasse era un peccato o non ne aveva
nessuna colpa. Don Ermenegildo diceva che anche con il pensiero si commetteva
peccato. Di questo aveva cercato il parere dei parenti che stufi di tutto il
daffare quotidiano le avevano risposto: “ Mah! Sacramento! Non hai altro a cui
pensare?” Infatti Nara voleva pensare ad altro, ma sempre
quello le ritornava alla mente.
All’osteria, dove gli uomini si soffermavano a lungo per
giocare a carte, fumare e a bere, spesso motivavano i brindisi come augurio per
la salute della moglie o, in generale, delle donne che erano a casa ad
aspettarli, non potendo esse stesse dissipare i pochi denari. Era, forse, un
modo di omaggiare le donne a loro insaputa; oppure volevano alleggerire il
senso di colpa per lo spreco perpetrato a loro danno; forse era semplicemente
una forma di rivalsa ed una complicità tutta maschile quella che il loro bere
avrebbe giovato la salute delle proprie donne. Un modo per rientrare nelle
anguste abitazioni ringalluzziti e non vedere la miseria che avrebbe smorzato
la fantasia dell’eros.
Le donne non si impressionavano degli effetti dell’alcol
e zittivano i consorti affinché non disturbassero i bambini che dormivano lì
accanto.
Borgo Polesinino era una località sperduta, un
gruppuscolo di case. Per ritrovarsi in una piazza, bisognava recarsi a Cà
Tiepolo, in Piazza Ciceruacchio. Piazza Ciceruacchio: perché quel nome? – Nara
ed i compagni si chiedevano - Le maestre, uniche portatrici di un minimo
d’istruzione non si curavano di uscire dal programma prestabilito. Il loro
insegnamento era finalizzato a rendere capace, la nuova generazione, a scrivere
una lettera ed a saper far di conto, a che sarebbero servite troppe nozioni? La
storia del Delta del Po ad esempio, sarebbe stata un fatto eccessivo, uno
spreco.
Certamente ci sarà stato qualcuno a conoscenza della
vicenda di Ciceruacchio, ma le mamme di Borgo Polesinino rispondevano: “Non era uno dei nostri, era un foresto.” I bambini
non credevano che quel nome buffo si riferisse veramente ad una persona e
pensavano che i “caciepolanti” fossero dei buontemponi per denominare una
piazza, l’unica piazza, in quel modo.
La situazione di arretratezza in cui la popolazione
versava, e della quale nessuno si curava, era anacronistica.
Quando a “Polesnin”, così era chiamato il borgo per semplificare, l’elettricista
Gianetto stendeva matasse di fili di rame nelle case per l’illuminazione
elettrica, nei centri urbani più importanti del Norditalia esplodeva il
miracolo economico.
James Watson e Francis Crick scoprivano la struttura a
doppia elica del DNA.
Edmund Hillary e Tenzing Norkay conquistavano l’Everest.
A Roma e a Milano esponevano un’antologia delle opere di
Picasso, il maestro del Cubismo che aveva superato la visione prospettica della
pittura figurativa, volendo condensare il tutto ciò che si vede e ciò che non
si vede allo stesso tempo, su un unico piano. Uno sconvolgimento
rappresentativo.
I bimbi di Polesnin viaggiavano ancora nel fango dei
sentieri di campagna e crescevano con la convinzione di non aver avuto storia,
di essere nati in un luogo sorto dal nulla, vicino al Po e al mare. Fiume e
mare che avevano ceduto al territorio detriti e fondali lasciandoli emergere ,
ma che potevano riprenderseli con un
improvviso burrascoso capriccio.
Un fatto li sorprese molto dando loro una sorta di
sicurezza. Durante una lezione di geografia politica, cioè sulla carta
contrassegnata da linee rosse, bianche, blu e arancioni, con parole che
indicavano i capoluoghi di provincia ed i centri abitati più importanti, la
maestra segnalò la propaggine del Delta del Po. Fu allora che si resero conto
di quanto fossero vicini al mare Adriatico, e che attaccata a loro c’era anche
tutto il resto dell’Italia. Fu una presa di coscienza straordinaria. Da quel
momento avrebbero potuto coltivare un sogno, visto che pure loro erano
italiani: da grandi avrebbero potuto, a pieno titolo, andare a Roma, nella
città capitale d’Italia e, a detta della maestra, la più bella e antica città
del mondo: la città eterna.
Così era nei racconti ascoltati dagli anziani e così era
ed è nei ricordi di Nara, che si susseguono incalzanti al ritmo dei pedali, mentre corre leggera lungo il Po.
Tenuta Bardin
Rientrando a casa dopo la scuola, del turno pomeridiano, Nara
passava dalla tenuta Bardin per approvvigionarsi del latte appena munto. A
quell’ora il sole caldo era già sceso dietro la stalla dei Bardin e una nuvola
rossa si attardava per l’ultimo saluto al giorno.
La gente del piccolo borgo si inebriava degli umori
effusi dalla terra all’imbrunire, olezzanti di composti minerali, di germogli
di fresche piantine, di erbe e di spighe, del lavoro di ognuno e si
predisponeva al quieto riposo. E, via via cessavano tutte le attività. Ogni
arnese veniva riposto. Ogni animale condotto al suo stallo.
Della vendita del latte se ne occupava Luisa la moglie
del figlio maggiore del patriarca Mario Bardin.
Luisa era una giovane donna alta, bruna. Portava un
foulard di batista colorato annodato dietro la nuca, vestitini di fresco cotone
che mettevano in risalto la figura slanciata, l’andatura flessuosa.
Era frequente trovarla con la sacca del becchime in mezzo
ad uno stormo di anatre, oche, faraone, tacchini e polli di ogni varietà
conosciuta, che, per ingordigia, spiccavano voli tutt’attorno al fine di
arrivare primi alle granaglie. Luisa era avvezza a quegli svolazzi perciò non
li temeva. “Queste bestiacce non mi danno tregua!” Si lamentava. In effetti
spesso era seguita nei suoi spostamenti nell’ aia da gruppetti di queste.
Gli zigomi sporgenti e una fronte spaziosa incorniciavano
i begli occhi scuri e penetranti di Luisa.
Il suo viso esprimeva fierezza, le movenze regalità;
osservare il suo incedere, in quella cornice agreste, era come vedere il cigno
reale aggirarsi lesto ed assorto in
un’ansa del fiume.
Aveva una personalità che colpiva la fantasia popolare,
cosi da essere spesso oggetto delle fantasticherie di qualcuno.
Si racconta che molti ragazzi si fossero invaghiti di lei
senza riuscire ad avere credito, non per motivi sentimentali, romantici, e
nemmeno economici.
Sembrava che la scelta dipendesse da una ragion di Stato,
per cui il ragazzo non avrebbe potuto che essere: forte, risoluto, vigoroso ed
assicurare prole alla famiglia come da visione mussoliniana condivisa, del
resto, dal vecio Zanen, padre di
Luisa.
L’unico candidato plausibile si rivelò Berto Bardin, il
quale non mancava certo di prestanza fisica, ma sicuramente di bellezza. Sembrava un torello inferocito.
Dopo il matrimonio le voci dell’immaginario collettivo si
assopirono, tranne che per qualche breve sussulto.
Pareva che ci fosse stato un antico amore mai
definitivamente dissolto verso un giovane del paese. Taluni asserivano di
averli sorpresi in languidi sguardi durante la messa domenicale.
E’ risaputo che dai languidi sguardi al riconoscere due
figure che si stagliano al chiaro di luna nei pressi di un pagliaio, il passo è
breve! Anzi, inevitabile!
Nella percezione della gente del Po, avveniva spesso una
dilatazione della realtà.
Così come uno sparo di cacciatore poteva sembrare un
tonfo in una brumosa alba di valle, lo svolazzare di panni dimenticati stesi,
sagome umane. Una parola ed uno sguardo fraintesi, potevano diventare pretesto
di una storia infinita.
E’ probabile, conoscendo la psicologia dei polesinini,
ipotizzare una romantica storia in cui Luisa fosse la vittima del burbero
Zanen, che l’avrebbe costretta al matrimonio di convenienza con il benestante,
prestante, ma poco avvenente Berto che, per giunta era burbero quanto suo
suocero, se non di più. Nella nuova famiglia Luisa avrebbe trovato un
atteggiamento a lei ben conosciuto. Ma ora si sentiva in posizione vantaggiosa,
poteva difendersi con l’arma della seduzione, verso il suo uomo.
Dalle chiacchiere non era emerso con esattezza quale
fosse il tenore degli sguardi intercorsi fra i due giovani. C’è chi sostiene
fossero nostalgici, altri, i malevoli, li giudicarono sguardi d’intesa al fine
di un incontro segreto; altri ancora, che si trattasse di sguardi rassegnati.
Seguirono messe domenicali, funzioni vespertine, rosari
nei mesi mariani e processioni. Una comunità impegnata furtivamente e
maliziosamente al controllo dei dardi che potevano ancora colpire i due
presunti ex innamorati. Ma i loro volti si incontravano impassibili come
protetti da maschere di cartapesta e non di un solo dardo colpì il loro sguardo
Cupido. Nella gente forse c’era il bisogno di trasferire aspettative legate
alla vita, su chi si sperava le stesse realizzando o, quantomeno, avesse il
coraggio di farlo per poi seguirne la scia. E… si imbastivano delle vere
commedie e, in vari casi, drammi a danno di alcuni.
Luisa e Berto attraversarono tutto ciò incolumi: da loro
nacque Paolo, bello come un raggio di sole.
Per anni si susseguirono tramonti, giorno dopo giorno,
nella rassicurante quotidianità della vita. Finché Berto prendeva di petto ogni
problema, Luisa continuava ad aggirarsi,
sovrana, attraverso la proprietà.
Inseguendo un toast
Le settimane passavano svelte da quando era pensionante
al collegio delle Madri Canossiane di Adria. Ora, con grande sollievo, Nara
frequentava una scuola statale esterna all’Istituto. Ogni sabato, al termine
delle lezioni, prendeva la corriera che le permetteva di essere a casa già alle
tre e mezza del pomeriggio. Trovava la famiglia immersa in un’atmosfera
operosa. La madre indaffarata in faccende domestiche, il padre dietro il banco
del suo negozio di alimentari, attiguo all’abitazione, intento a servire le
clienti. Il negozio comunicava con l’abitazione attraverso una porta interna.
Appena a casa Nara si avvicinava alla porta, sollevava un lembo della tendina e
tamburellava il vetro con le dita per attirare l’attenzione del papà, il quale
richiamato dal tintinnio, si accorgeva della figlia e dei cenni di saluto. Quel
gesto era molto gradito all’uomo perché il suo viso assumeva un’espressione
gioiosa.
Il pomeriggio scorreva in un lampo per Nara subito presa
dalle occupazioni casalinghe.
Qualche sabato sera si dava appuntamento con gli amici
alla sala da ballo, luogo d’incontro, per tradizione, di tutta la popolazione
giovane del luogo.
Un’orchestrina suonava musica leggera. Gli amplificatori
propagavano frequenze acustiche compatibili con la chiacchierata sommessa.
La domenica era dedicata allo studio e, spesse volte, al
rientro in collegio durante il pomeriggio stesso.
A tutte le pensionanti era permesso trascorrere il fine
settimana in famiglia.
Ogni lunedì era caratterizzato da una fitta rete di
fresche notizie. Il cicaleccio era trattenuto durante l’orario di studio ma
raggiungeva la sua massima intensità nell’ora dell’intervallo dedicato allo
spuntino pomeridiano. Il lunedì non si faceva merenda, la sosta era
completamente assorbita dall’aggiornamento sulle vicende comuni che potevano
riguardare i rispettivi corteggiatori, le gite domenicali, i locali considerati
alla moda.
Si parlava anche dei diversi prodotti stranieri che
cominciavano ad essere comunemente consumati. Le ragazze ci tenevano a
conoscere tutte le novità, così da non sembrare delle provinciali sprovvedute.
Parole di lingue diverse erano inserite qua e là con una
certa noncuranza, nonchalance appunto, da persone ricercate nei loro discorsi.
Vocaboli come cocktail, sandwich, yogurt, passe-partout, réception, suite,
knock out ed altri ancora, venivano usati a profusione.
Una di queste parole colpiva molto Nara, una parola
impenetrabile, forte, sicura, risolutiva, una parola dalla tonalità vincente
che risuonava più o meno così: “ toast...oast...oast! ”
Si deve sapere che la ragazza più snob del gruppo, colei
che vestiva abbigliamento di boutique, usava maquillage Òrlâne e parfum Chanel,
spesso raccontava di essersi recata, in compagnia di amici al caffè Pedrocchi
di Padova a degustare un toast. Questa ghiottoneria permaneva sconosciuta nel
mondo di Nara e delle compagne. Quando la disdegnosa delle comuni mortali si
appartava, il gruppetto, di nascosto, spettegolava un po’ su di lei, ma poi si
riprometteva di procedere alla scoperta del misterioso alimento.
Una ragazza del quinto anno di ragioneria scoprì che era
una specie di sandwich cioè un tramezzino che veniva scaldato. Quella che
frequentava la quinta ginnasio e che aveva un fidanzatino diplomato cameriere,
seppe, da lui, che era fatto di due fette di pane imbottite di prosciutto ma
che, purtroppo, non lo aveva mai servito. Nara, al primo anno di computisteria,
aveva una compagna di classe adriese, quindi cittadina, che frequentava gli
ambienti “In”. Infatti da lei si seppe esattamente come doveva essere un toast:
due fette di pane a cassetta, misura adatta per il tostapane dove veniva
abbrustolito, dopo essere stato riempito di formaggio a fette e prosciutto
cotto. Finalmente l’indagine era giunta a conclusione.
- Non mi entusiasma più di tanto - Aggiunse la ragazza
adriese - ma se volete togliervi lo sfizio, lo fanno anche al bar Centrale -
Al bar Centrale le ragazze non lo chiesero mai, per paura
di non essere all’altezza della consumazione e fare brutta figura.
Dopo aver conseguito il diploma di computista
commerciale, Nara ebbe in regalo dal padre, un viaggio di piacere da
intraprendere con sua sorella. Si sarebbero recate, da una vecchia amica, in
Valtellina.
Alla stazione centrale di Milano il primo treno in
coincidenza per Sondrio sarebbe partito dopo circa tre ore.
Per non annoiarsi troppo dentro la deprimente stazione
ferroviaria, Nara ebbe un’idea geniale:
Siamo a Milano! – disse, rivolta alla sorella – E’
l’occasione buona per farci un giro e, perché no?, quella di prenderci un
toast! –
Cecilia, la sorella, era sempre d’accordo, anzi
acconsentì con entusiasmo provando un certo languorino.
Era il Settembre del 1964. Una giornata assolata ed
afosa. Il cielo trasparente attraverso una cortina impalpabile di vapore come
solo si può osservare nel capoluogo lombardo.
Incamminandosi verso l’uscita, dopo aver depositato la
valigia in custodia, Nara provò una certa inquietudine perché aveva promesso ai
genitori di seguire esclusivamente l’itinerario prestabilito.
Osservò con attenzione la strada ed i passanti, le sembrò
che nessun pericolo fosse in agguato, anzi, alzando lo sguardo verso la sommità
di un palazzo, scorse, con vivo compiacimento, una gigantesca insegna bianca
con la parola “ T O A S T ” scritta a caratteri cubitali.
Guarda Cecilia! - Indicò con l’indice puntato – E’ il
segno del destino! – La sorella era felice, così, finalmente, avrebbe placato
l’appetito che si faceva prepotente.
Individuarono un tavolo libero, sotto il pergolato
d’edera di un bar e si sedettero.
« Oh! Finalmente! »,
esclamò soddisfatta Nara, inarcando il busto ed alzando un po’ il mento.
« Se tanto mi dà tanto, con l’insegna che ci ritroviamo
qui sopra, mi sa che siamo capitate nel centro di produzione dei toast! ».
Nara era appagata solo per aver carpita l’insperata
opportunità.
Cecilia non si lasciava distrarre da soddisfazioni
astratte. Con concretezza, adocchiò un cameriere e, con lo sguardo, non lo
mollò un attimo. Infatti, poco dopo, l'uomo arrivò con il suo taccuino per la
comanda.
« Vorremmo due toast », disse Nara.
Il cameriere guardava le due ragazze con aria indolente,
come se avessero fatto una richiesta astrusa.
« Non mi dica che non ne avete! », sbottò Nara con ansia ed anche un po’
spazientita, visto che l’uomo reagiva con lentezza. «Va a finire che anche
questa volta si salta! », fu il suo pensiero sfiduciato.
Invece di rispondere, il cameriere con la sua giacca
bianca di cotone ed un fazzoletto di seta, rosso bordeaux, annodato attorno al
collo, come spronato, cominciò a scrivere solertemente:
«Due toast! », annotò. « Come li volete? », s’ informò.
Nara guardò la sorella con occhi smarriti ed
interrogativi allo stesso tempo: « Cosa vorrà mai ulteriormente sapere, costui?
», ed ancora: « Come li vorrà la gente di Milano? », sembrava dire lo sguardo
di Nara.
Cecilia, ascoltando il suo stomaco senza perdersi in
ciance, aggirò subito l’ostacolo e rilanciò:
«A me andrebbe bene anche un panino! ».
A quel punto il
cameriere sospese di scrivere ed attese con la matita a mezz’aria.
« Assolutamente no! », riprese Nara con forza, vedendo
alienarsi la prospettiva da tempo agognata. « Siamo qui per due toasts e quelli
prenderemo! ».
Allora il cameriere usci dal suo riserbo facendo una
domanda che implicava un suggerimento:
« Li volete farciti? ».
F A R C I T O... termine sconosciuto! I nervi di Nara,
messi a tiro dalla prova inusitata, vibravano
« Si, faccia lei! », riuscì appena ad articolare con
fastidio soffocato.
Casualmente Nara doveva aver dato la risposta che il
cameriere s’aspettava, perché se n’andò ritenutosi dispensato dal precisare il
tipo di farcitura.
E’ inutile dire che, a quel punto, la giovane tirò un
profondo sospiro di sollievo. I toast arrivarono ben cotti assieme alle coca
cola in bottiglia ed al cerimonioso servizio del cameriere. Contrariamente alla
sue abitudini, Nara lasciò un pourboire
Viaggio a Roma
Era un pomeriggio inoltrato di un giorno di Febbraio del
1965. Faceva buio pesto quando, con la solita valigia, modello emigrante, Nara
scese dall’autobus in Via Appia Nuova. In realtà doveva recarsi sulla parallela
Via Appia Antica dove a quell’ora i mezzi pubblici avevano cessato di
circolare. Prima di scendere il conducente l’aveva informata, con riluttanza,
che poco oltre un sentiero sterrato l’ avrebbe portata sull’Appia Antica, se
proprio voleva.. avventurarcisi, sottolineò.
Non aveva scelta. Si avventurò. Percorse a fatica,
appesantita dal bagaglio, i trecento
metri di leggera salita prima di incrociare il sentiero che l’ avrebbe portata
a destinazione.
Una vettura con dei giovinastri a bordo rallentò la corsa
ed uno di loro insisté affinché accettasse un passaggio. Ebbe una paura folle.
Con il cuore a mille raggiunse la stradicciola laterale e si precipitò giù per
la discesa.
Il posto sembrava disabitato. Solo qualche segno
d’illuminazione qua e là.
Trascinata dal peso della valigia ruzzolò fino in fondo
alla scarpata. All’improvviso un gruppetto di bambini di varie età arrivò alla
spicciolata e si parò davanti a lei. Avevano espressioni incuriosite e
ridanciane: erano sfacciati.
“Sono comunque bambini!” Pensò.
Si tranquillizzò, ricordando i giovinastri di poco prima.
“Da dove sbucate?” Chiese.
“De qua, de là!” Le fecero segno.
“Non riesco a vedere le vostre case!” Osservò perplessa quello
che appariva come una finestra illuminata in lontananza.
“Ce stanno, ce stanno” l’ assicurarono ammiccanti e
complici fra di loro.
Dal nulla altri ragazzini sbucarono probabilmente
attirati dall’insolito strepitio. Volevano trasportare la valigia. Disse loro
che lei era grande e quindi più forte, di lasciarla a lei. Non si fidava. Ma
loro erano un gruppo che aveva voglia di giocare. Giocarono. Le strapparono la
valigia mentre tentò di cambiarla di mano e la sballottarono, la fecero
rimbalzare lungo il sentiero. Non si apri. Stoicamente sopportò ogni colpo.
“An vedi er bagaglio! Mejo d’ er coccio!”
Buffoneggiarono.
La sua meta non era così vicina. Ebbero modo di
spassarsela.
Strada facendo capi che le loro intenzioni non erano troppo
malevoli: era semplicemente un’intrusa. Abbandonò la sua diffidenza. Comprese
che poteva fidarsi e loro compresero che avevano l’opportunità di aiutare una
ragazza in difficoltà. Fu scortata fino a destinazione, in Via Appia Antica, dove la stavano
aspettando.
Erano i ragazzini delle borgate: vivaci, belli e scaltri.
Pieni di genuina vitalità, di un’umanità immediata, spontanea, animalesca. La
percezione della loro supremazia fu per lei istintiva: conoscevano il
territorio, e lei era sperduta. Fiutarono la sua sottomissione che produsse un
sentimento di complicità. Avrebbero potuto derubarla, o anche colpirla, e
abbandonarla lì, invece giocarono con lei e Nara si rallegrò della cosa,
noncurante della sorte brutale incorsa alla valigia.
Così come erano emersi dal buio della sera, in un
nonnulla scomparirono.
Ragazza alla pari
« E’ fortunata Nara!, proprio quest’anno inizia Europalia il festival della
cultura europea . E’ l’Italia ad aprire la rassegna dei paesi che di anno in
anno si avvicenderanno. Al Palais des Beaux-Arts hanno esposto gli affreschi
salvati dall’alluvione di Firenze ». Di questo Madame Dumais informa la sua ragazza alla pari italiana.
« Sono stati programmati molti spettacoli in lingua italiana: vous en avez
de chance! », esclama con enfasi.
« Si ricorda dell’alluvione, vero? ».
« Me lo ricordo ».
Come potrebbe Nara non ricordarsene? Il quattro novembre
l’Arno si riversò su Firenze e il giorno stesso, il mare sommerse parte del comune
di Porto Tolle e lei perse l’impiego, iniziato pochi mesi prima a Cà Tiepolo.
Nara si concentra sulla sua fortuna che sta tutta nella
fruizione di spettacoli ed esposizioni di opere d’arte della sua madre patria:
circostanza apprezzabile.
Ha una vaga idea di che cosa sia un affresco, ma giustamente pensa si tratti d’un genere
non trasportabile ed è molto incuriosita.
Il primo pomeriggio libero si reca alla mostra. Le sale
hanno numerose lastre di intonaco affrescate affisse alle pareti, frammenti del
grande patrimonio artistico della città medicea restaurati dopo l’alluvione e prestati
alla città di Bruxelles, prima di essere ricollocate definitivamente nei siti
di provenienza.
Sono dipinti raffiguranti episodi di storia sacra ben
leggibili nonostante i colori tenui. Piacciono molto alla ragazza che si
sofferma a guardarli a lungo.
« Come avranno fatto a dipingere l’intonaco? », si domanda?
Non ha mai studiato storia dell’arte, e non conosce le
tecniche pittoriche, ma è affascinata dalle opere esposte e si ripromette di
rivisitarle nella loro sede originaria al rientro in Italia.
« Madame Dumais lo saprà senz’altro », pensa, ma non vuole infastidirla nel porle troppe domande; già si presta a darle due lezioni di francese
la settimana oltre alla normale conversazione quotidiana.
Non che a lei riesca di sostenere una vera conversazione
al momento. Può formulare qualche frase, le più necessarie, per il resto impara
ascoltando.
Avrebbe voluto raccontare a M.me Dumais cosa costò
l’alluvione al territorio ed agli abitanti di Porto Tolle, ma avrebbe dovuto
studiare il francese per mesi prima di riuscirci.
Lei non la subì direttamente, a parte la perdita del
lavoro, perché abitava in sponda destra del Po della Donzella. Come fare a
spiegare alla donna belga, il labirinto di corsi d’acqua del Delta del Po. Per
Nara stessa era difficile capirci. Ci voleva un conoscitore come Marino
Cacciatori, detto Caparin, che li navigava tutti i giorni.
Del quattro novembre
Caparin raccontava: « Le onde del mare erano alte come case a due piani, e il vento di scirocco
tirava rabbioso. Puntava dritto su Marina Settanta e là ha mandato tutta la sua
furia in un’ondata…, gente!, un’ondata che si è allargata sull’intera isola
della Donzella. Di quell’onda, sono rimasti due metri d’acqua salmastra che ha
sommerso la campagna e le case, per centotrentanove chilometri quadrati. Tutto
ha inondato, dal Po di Tolle al Po della Donzella: un disastro! ».
Nara lascia il Palais des Beaux-Arts sommando alle
immagini degli affreschi fiorentini, l’immagine della sua terra. Una stretta
emotiva le serra la gola, un’onda anomala chiusa in petto che vuole e deve
comprimere. Il suo scopo principale è imparare il francese: si trova a
Bruxelles per questo!
E’ già l’imbrunire quando esce dal museo. Potrebbe fare
un giro alla Grand Place prima di riprendere l’autobus verso casa. La Grand Place è sempre brulicante di vita. I
plateatici a ridosso dei caffè sono
affollati di gente in conversazione. Un’aiuola di venditori di azalee e
tulipani nel mezzo della piazza è rutilante di colori. Si gode un’atmosfera
raffinata, rilassata, sotto lo sguardo delle facciate gotiche dei palazzi che
la cingono. Le case delle corporazioni appaiono al contempo austere e timide,
sapienti e sobrie: sono espressione di intimità agli occhi di Nara. Per quel
giorno rinuncia. L’autobus ci impiega quasi un’ora, non le va di ritardare. E’
molto scrupolosa nell’assolvere i suoi compiti. Non vuole percepire biasimo
nella voce dei suoi ospiti, soprattutto mentre è preda della nostalgia del
mondo che ha lasciato: le sarebbe insopportabile.
I Dumais non rimproverano apertamente, appartengono al
ceto aristocratico e la loro educazione è improntata alla civiltà dei rapporti,
come noblesse oblige. Così la ragazza
bassopolesana non solo ha da imparare la lingua, ma anche molte regole di politesse, buone maniere, da essi
adottate. Erano sembrate numerose, in realtà tutte facevano capo ad una
soltanto e sola essenziale regola: stare elegantemente ognuno al proprio posto.
Nara scopre velocemente i confini dei suoi ambiti e non li varca, né permette
intromissioni. La famiglia belga, dopo qualche tentativo, capisce che la
ragazza ha una personalità definita e matura e che con lei non si gioca al
predominio. Questo ha permesso una buona
collaborazione e una reciproca stima. Non poteva essere altrimenti dato
che Nara si occupava del piccolo Joseph.
« Joseph, ti tiè el me amore! (sei l’amore mio!), el
putin più belo al mondo! (Il bambino più bello del mondo!) », gli sussurrava in
dialetto quando, adagiato sul fasciatoio, scalpitava le gambette e con le mani
cercava d’afferrarle i capelli e la bocca. Lui capiva il dialetto di Nara e le
sorrideva felice.
Alla ragazza era vietato viziare il bebé alla moda
italiana. Poche coccole, per non farlo crescere sdolcinato. La madre stessa vi
si atteneva.
Scorrazzava il bambino in lunghe passeggiate nel parco di
Woluwe Saint-Pierre o verso Boulevard Saint-Michel se doveva fare qualche
acquisto. Le ruote del passeggino, giravano frenetiche sotto la sua energica
spinta e le gomme, a fronte del gran camminare, di giorno in giorno sempre più
lise. Uscivano con il bello o cattivo tempo, due ore al mattino e due al
pomeriggio perché lo stare all’aperto era considerata la condizione di vita
ottimale per i bambini. Ed era sicuramente vero, perché Joseph cresceva bene
senza mai un raffreddore o un mal di gola.
« Sono riuscita a prendere un biglietto per la prima del
Rigoletto anche per lei Nara! », M.me Dumais annunciava con voce allegra, dopo
essere stata in centro città. « Vedrà il nostro Théâtre de la Monnaie! ». « Alla
prima, sicuramente, ci saranno il re e la regina! ».
Era un posto di un palchetto al livello superiore rispetto
al palchetto riservato ai Reali. Nara non ci credeva di poter vedere così da
vicino Baldovino e Fabiola. Lui teneva teneramente la mano della sua sposa nella
sua ed erano così spontanei e regali allo stesso tempo, che sembravano personaggi
di una favola.
M.me Dumais viveva quell’avvenimento senza particolare
emozione. Come aristocratica, una volta era stata designata damigella d’onore
della regina durante una visita della Sovrana nella provincia belga.
« Nell’auto di rappresentanza sedevo accanto a lei »,
racconta la nobildonna. « Durante il percorso, mi ha confidato il suo dolore di
non poter avere figli e di quanta infelicità questo le causasse! ».
« Non era imbarazzante per lei questo argomento, così
delicato per una donna? ».
« No, non lo è stato! ». « Fabiola è molto semplice ed
amabile, abbiamo conversato come tra sorelle, con confidenza ».
« E’ stata altre volte al seguito della Regina? ».
« Solo in quella circostanza. Mia madre, al contrario, fu
più volte invitata a corte in occasioni ufficiali. Vede questo anello? », Nara
lo vedeva bene: era un’enorme rosa di diamanti.
« I diamanti provengono dal diadema di mia madre! »,
disse, « lo indossava quando si recava a Palazzo Reale per la festa della
corona. Ricorrenza abolita dopo la guerra ».
Nara , al loro posto, lo avrebbe conservato come cimelio
di famiglia, ma la madre di M.me Dumais
ne fece degli anelli, regalo di nozze per le figlie e le nuore, impiego
più saggio onde evitare diatribe tra i figli.
Erano realtà inconcepibili nella mente di Nara fino a
qualche mese prima. Ma lei non si lasciava coinvolgere, ne rimaneva al di
fuori, talmente al di fuori da sembrare una snob.
C’è da dire che la ragazza aveva un aspetto carino,
mediterraneo, che colpiva i frequentatori della famiglia Dumais.
Un cugino ricominciò a frequentare la casa, dopo anni di lontananza.
« Non mi ricordavo più di questo cugino », ammette la
donna, « è un lontano parente di cui ho vaghi ricordi: non mi spiego le sue
improvvise e frequenti visite! ».
Poco prima che Nara concludesse il periodo di permanenza
stabilito, M.me Dumais le offrì la possibilità di un impiego all’ambasciata
italiana. Un impiego facile da ottenere tramite suo padre che aveva rapporti
professionali con alcuni diplomatici. Nel contempo si seppe che il cugino
misterioso era un uomo timido e solo, appena uscito da un periodo difficile
della sua vita e pronto a formarsi una famiglia.
La ragazza bassopolesana si era guadagnata stima e
fiducia presso la famiglia belga, tanto da volerla tenere a lungo presso di sé,
come prima opportunità; trovarle una sistemazione definitiva a Bruxelles, come
seconda. Il cugino timido ogni tanto riappariva.
« Che ne pensa del cugino Jean Louis? », le chiede infine
M.me Dumais. I tempi stringevano.
« Non ho avuto modo di conoscerlo bene e, come lei stessa lo ha definito, penso sia timido ed introverso ». Risponde
Nara prudentemente.
« Io credo, anzi sono quasi certa che, a parte la sua
riservatezza, sia molto interessato a lei, Nara! ».
Nara tace. Avrebbe voluto rispondere che non le piacevano
le persone che incaricano altri per le proprie faccende personali; che si
poteva definire un bel giovane, ma che aveva un aspetto attaccaticcio, lo
sguardo sfuggente di chi non ha l’animo tranquillo e i piedi …, i piedi grandi e grossi dentro le scarpe nere
appuntite: una misura che la inquietava. Ma di questo non proferì parola.
Continuò a rimuginare sull’opportunità di rimanere o meno
a Bruxelles. Più rifletteva e maggiormente la relazione fra l’impiego
all’ambasciata ed il cugino Jean Louis combaciava. E più le due cose
combaciavano, ancor più Nara si sentiva oppressa.
« Ho conseguito un buon livello di conoscenza del
francese parlato e scritto - si disse - non era forse questa la mia meta da
raggiungere? », puntualizzò con se stessa.
L’unico legame da sciogliere riguardava l’affetto per
Joseph.
Era cresciuto e stava imparando a dire piccole frasi.
« Attention! », andava ripetendo scorazzando sulla sua
vettura a pedali lungo il marciapiede di Drève de Nivelles, la via sotto casa e
fra il pianerottolo e le stanze del primo piano, quando pioveva. Fra la sua
stanza e quella di Nara, lo spazio era limitato. Joseph doveva fare una curva
molto stretta per evitare lo stipite della porta. Solitamente ci sbatteva
contro, poi faceva retromarcia, infine s’infilava da Nara.
Un giorno, in seguito ad un ennesimo urto, una ruota si
staccò e l’automobilina si arrestò. Pur di continuare a viaggiare il piccolo la
sollevava fino alla vita e, con i ruoli invertiti, il gioco proseguiva.
« Arrêtes Joseph! Tu vas te faire du
mal, comme ça! », gli diceva Nara, « Tu vois ? », e gli mostrava il
moncone del semiasse e la ruota staccata, « Ton auto est cassée. Elle ne peut
plus rouler ! ».
Ascoltava attento, Joseph . Il verbo rompere gli era
ostico, non era mai riuscito a pronunciarlo.
« Auto Casssse… », sibilava con la boccuccia tutta nello
sforzo delle labbra che non potevano accentare l’ultima sillaba.
« Oui, Bravo!, mon bebé! L’on
dit : cassssée !, mon petit choux !», lo incoraggiava Nara.
L’automobile giocattolo fu infine portata a riparare.
Joseph era troppo tenero nell’approccio a quel verbo impossibile e sia Nara che
i genitori si divertivano a stuzzicarlo. « Qu’est-ce qu’elle a ton auto,
Joseph? », e sempre: « Elle est casssse…», era la divertente risposta.
Il tempo di Nara come ragazza alla pari si era concluso.
Non sarebbe andata a lavorare all’ambasciata e non avrebbe assecondato
l’interesse di M.eur Jean Louis. Decise il rientro in Italia.
Per non
rattristare il bambino, il giorno della partenza fu portato dai nonni.
Sul treno che la riconduce a casa, Nara ha davanti agli
occhi la testolina bionda e riccioluta di Joseph che si scompiglia mentre
pedala nel vento della Drève de Nivelles.
Sorride nella corsa Joseph e grida al vento l’accento
ritrovato:
« Cas-sée,
Na-rà! Cas-sée! ».
Fendi 1976
Nara sale sull’autobus con il respiro affannato. Il
leggero ritardo l’ha indotta ad una
corsa sostenuta per raggiungere la fermata dell’automezzo in arrivo. L’autobus
si ferma e Nara sale. Si appoggia un momento all’asta in cui è collocata
l’obliteratrice, per prendere fiato. Sedato l’affanno, estrae dalla borsa a tracolla il portafoglio
“Fendi” da poco ricevuto in regalo. Lo
tiene in mano con dolcezza, quasi con tenerezza. Lo apre e sfila, da uno
scomparto, un biglietto che timbra per pagare la sua corsa. Poi ripiega il
portafoglio, quasi accarezzandolo, lo ripone nella borsa e si siede.
“Meno male che ho corso in tempo! - pensa con sollievo -
sarebbe stata una bella seccatura arrivare in ufficio in ritardo!”
L’autobus è semivuoto. Solo alcuni giovani, due donne e
tre uomini, si accalcano inspiegabilmente vicino all’uscita ostruendo il
passaggio.
Nara è irritata nel constatare che non prendono posto, perché di lì a poco, lo
sa, la costringeranno ad imporsi per poter scendere.
“E’ gente cui manca un elementare senso di civismo!”
Pensa, compiaciuta di sentirsi superiore.
Poi passa ad altre riflessioni. E’ contenta quel giorno!
I bambini hanno superato l’ennesima tonsillite ed hanno ripreso a frequentare
l’asilo nido. Lei ha potuto dedicare un po’ di tempo a se stessa e si è
preparata con cura prima di uscire. Si sente in forma e, notando la sua
immagine riflessa sul vetro del finestrino vede, come Narciso nell’acqua dello
stagno, il proprio volto. E’ il volto di una giovane donna carina, ben
pettinata, ben truccata, con gli orecchini che scintillano. Intanto l’autobus,
proseguendo il suo tragitto, giunge in prossimità dell’ufficio e Nara si
appresta a scendere.
“Permesso!” Chiede ai giovani che ancora intralciano il
corridoio. Questi sembrano non udire.
“Permesso!, devo scendere alla prossima!” Replica Nara
con tono più marcato.
Due, dei tre uomini, le cedono il passo. Le due
donne si spostano appena oltre la porta
centrale ed il terzo, un ragazzo alto due metri, si attarda davanti all’uscita
finché l’autobus non si arresta, del tutto. La porta si apre e lo stangone rimane abbarbicato al corrimano. Ha il viso
rivolto verso di lei, ma lo sguardo diretto oltre le sue spalle in
un’espressione distaccata. Gli altri due erano dietro di lei.
Nara, ostacolata, perde la calma e, se non fosse così
pressata dall’impegno di lavoro, senza tanti preamboli gli darebbe un calcio
negli stinchi per riportarlo alla realtà contingente: “Costi quel che costi!”,
diceva fra sé non potendo sopportare la gente maleducata.
“Si rende o non si rende conto che devo scendere! Mi
lascia passare: sì o no?”
La sua voce
risuona alterata, quasi stridula. Nello stesso istante viene spinta come
se, alle sue spalle, qualcun altro dovesse guadagnare l’uscita. Nell’atto di
scendere non può prestare attenzione a ciò che avviene intorno a lei. Teme di
cadere.
Finalmente è in strada! Si gira per vedere chi stesse scendendo dopo di lei,
ma la porta si chiude e lei è l’unica passeggera scesa a quella fermata.
L’autobus riparte, al suo interno non c’è più assembramento.
Nara, si avvia verso l’ufficio con una sensazione di
sconcerto. Le rimane il tempo per un caffè ed entra in un bar. Alla cassa apre
la borsa e cerca il suo nuovo e fiammante “Fendi”. Il portafoglio non c’è più
benché si ostini a frugare spasmodicamente. Poi, in un lampo, tutto le è
chiaro: alla fermata lei è scesa, mentre il suo Fendi ha proseguito la corsa!
Pacchetto
Lo si vedeva spesso dal tabaccaio
per i soliti pacchetti di sigarette. Amava acquistarne uno alla volta per
potersi recare più volte al giorno, presso il bar di Ugo, che aveva anche la
rivendita di tabacchi, e tenersi così occupato.
Entrava nel locale con fare
circospetto; si portava al centro della sala; dopo aver ispezionato con lo
sguardo l’ambiente, così da potersi rassicurare sul da farsi, ordinava con
decisione: “Ugo! Un pacchetto!”
Gli altri frequentatori lo
conoscevano bene. In Polesinino non esiste possibilità di rimanere sconosciuti.
Quel suo continuo ordinare “un pacchetto” gli valse come appellativo. Infatti i
più lo riconoscevano come Pacchetto e non con il suo vero nome di battesimo.
Con in mano le sigarette, andava
a sedersi al suo solito tavolo e, dopo aver ordinato da bere, cominciava a degustare
il tabacco.
Fra un bicchiere di vino e
l’altro decorava con cerchi e spirali di fumo azzurrognolo il bar di Ugo.
Non sempre aveva denaro per
pagare la consumazione ed allora intimava ad Ugo: “Ugo metti sul conto!”
Lui intimava ma nessuno si intimoriva,
men che meno il barista.
“Bada, Pacchetto, che il conto
s’ingrossa!” Gli ricordava spesso.
“Va be-ne, va be-ne!” Rispondeva
strascicando le sillabe. “Non ti devi preoccupare! Non appena prendo la
pensione te la porto tutta!”
Così passavano i giorni e così si
trascinava la questione.
Del passato di Pacchetto non si
conosceva un granché. Non aveva un lavoro fisso, forse percepiva abusivamente
una pensione di invalidità assieme alla moglie, molto più anziana di lui, che
era sicuramente invalida. Correva voce che la moglie di Pacchetto non fosse più
in grado di badare a se stessa e che fosse l’uomo ad occuparsi sia di lei, che
della casa. Ma erano solo voci perché nessuno, fra gli avventori, si era mai
recato, una sola volta, a far loro visita.
Pacchetto fumava e beveva e
beveva e fumava, ingrandendo così il debito con il barista che peraltro cercava
di capire le sue vere intenzioni.
“Senti amico, ormai per saldare
il tuo conto, una pensione non ti basta più! Vuoi spiegarmi che intenzioni
hai?” Chiedeva Ugo.
Ma Pacchetto non aveva idea di
sorta e si difendeva dicendo che comprendeva; comprendeva il suo punto di
vista, ma, a sua volta Ugo avrebbe dovuto comprendere il suo: vale a dire che
per vivere non disponeva che della pensione, la quale non bastava per tutto il
necessario.
Il barista si rese conto che il
suo credito era inesigibile. Cambiò tattica e disse: “D’ora in avanti quello
che consumerai te lo dovrai prima guadagnare, altrimenti ti consiglio di
cambiare aria!”
Il pover’uomo con l’animo risollevato
dalla soluzione prospettata, non senza orgoglio rispose: “Hai ragione, Ugo! Io
lavorerò, vedrai! Lavorerò e pagherò tutto!
A quell’epoca la dipendenza dal
fumo e dall’alcol non era ancora troppo marcata e c’erano dei momenti in cui si
sentiva pieno di forza e di capacità.
Fu così che incominciò il
baratto: rasatura del prato, scavo del fosso, ripulitura del cortile dall’erba
infestante contro vino e sigarette.
All’inizio tutto procedeva
d’amore e d’accordo; ma con lo scorrere del tempo, l’intesa vacillava, perché
Pacchetto non misurava più il valore del lavoro con criteri oggettivi, ma in
base alla fatica fatta nell’eseguirlo. Più lui si sentiva stanco, maggiore
quantità di roba pretendeva in cambio.
Per questo motivo volarono male
parole fra lui ed il suo creditore nonché datore di lavoro.
Pacchetto però sapeva
dimenticare.
Aveva un approccio alla vita come
quello di un bambino. Era buono ed aveva voglia di gioire; lo si intuiva dal
suo sguardo tenero e timido, ed allo stesso tempo, curioso e luminoso.
Quando la moglie si aggravò egli
tentò di accudirla senza riuscirvi. Così cominciò a pensare al dopo! Fu in
quest’ottica che un giorno si presentò a casa di Nara. Era a cavallo della sua
bici, e dal manubrio penzolava una borsa di plastica dal contenuto pesante.
“Buongiorno Nara!” Salutò
Pacchetto.
“Buongiorno Pacchetto!” Rispose
Nara.
“Era da tempo che mi dicevo fra
me e me - disse Paccheto - Perché non vai a vedere la nuova casa di Nara?”, ed
eccomi qua!”
Per cortesia, la donna, lo fece entrare
nella sala di soggiorno e velocemente lasciò che desse un’occhiata, poi lo
invitò ad accomodarsi all’esterno. Era sola in casa ed è risaputo che una donna
sola non deve ricevere uomini estranei alla sua famiglia.
Gli offrì una bevanda fresca che
lui, avvezzo al vino, rifiutò decisamente.
Esaurito l’argomento sulla casa,
Nara sperava che se ne andasse. Vide, però, che indugiava.
“Le devo parlare - infatti rivelò
- come lei saprà, mia moglie è molto malata”
“Si, lo so! Mi dispiace molto!”
Disse Nara.
“Per questo – continuò, come se
la voce di Nara non si fosse udita, - Io devo pensare al dopo!”
Nara a questo punto è allarmata,
ma interviene con decisione: “Cosa dice mai, Pacchetto!, questo è il momento di
pensare a sua moglie ancora in vita e bisognosa più che mai di lei!”
Ma l’uomo, preso dal suo
discorso, continua imperterrito: “Vede per il dopo io devo avvantaggiarmi. Non
posso restare solo. Ho pensato proprio a lei!”
“Che c’entro io!?” Esclamò Nara
con grande stupore.
“Lei è la donna adatta a me!”
Disse sicuro.
“Saprà bene che io ho già un
marito!” Disse Nara, non sapendo a che santo votarsi.
“Ma lui è lontano!” Incalzò
Pacchetto, senza demordere.
Nara capì che, l’uomo, doveva
essere completamente ubriaco. Comprese inoltre,che faceva sul serio, perché, a
garanzia della sua proposta, Pacchetto, aveva portato un pegno.
“Ho qui una bella gallina da
brodo: è una gallina nostrana che ho portato per lei.”
Nara intuì che accettare quel
dono, rappresentava per l’uomo, una promessa di fidanzamento.
“No, la ringrazio, ma non uso
preparare del brodo, ai miei non piace!” Disse risoluta.
Pacchetto si sentiva come sulle
sabbie mobili.
“E’ una gran bella gallina!”
Insistette, mentre il suo progetto sprofondava.
“No, davvero!” Incalzò Nara
drasticamente.
A quel punto ci fu un lungo
silenzio. Poi Pacchetto reagì orgogliosamente e, con tono asciutto, si
accomiatò scusandosi per il disturbo.
Rimontò in sella e cercando di
tener ben fermo il manubrio che pendeva dal lato della gallina, lasciò la casa.
In seguito, per alcuni giorni,
passò ripetutamente nel tratto di strada adiacente al giardino della casa di
Nara senza mai, nemmeno per una volta, girare il capo: pedalava dritto, a muso
duro!
Comari
E’ stata lei, Fedora, la
linguaccia, a mettere il malumore fra me e Arturo. Le ha riferito Arturo, che
io lo spiavo. Difatti mi guardava con occhio torvo, senza che io riuscissi a
capire il perché.
Che devo fare io, se il mio
terreno confina con il suo? Io andavo fino in fondo, nella rimessa, a
posteggiare il motorino. Mah!, dì un po’?, dovevo fare, come?, per riportare il
mio motorino senza guardarlo, nel mentre lui era là in fondo al suo terreno
confinante con il mio?
La linguaccia, non vive bene se
non semina zizzania. E’ stata proprio lei che ha sparlato di Arturo, benché su
di lui avesse qualche mira. Sparla di tutti, ce l’ha come vizio. L’ho sentita
proprio io dire: “Roba da matti! Alla sua età el se ga messo in testa, de
rimaridarse!”
Io non sparlo mai di nessuno, lo
sai anche tu che mi conosci. Lavoro tutto il giorno, me ne mancherebbe proprio
il tempo.
Te lo giuro, è stata lei a
provocare tutta la confusione, e farme passar mi per la maldicente. Se mai, da
parte mia, te lo confesso, le uniche parole che ho detto, le me xe scampae un
giorno in bottega da Maggio, dove se gavemo trovae con la Marisa della Clelia,
la Teresa della Inisse e con la Maria della Cioci da Basso.
Stavano parlando di Vanni
Menegon, che ha quasi settant’anni, di Guido Bonasso che sarà attorno alla
cinquantina e di Arturo, per l’appunto!, le diseva che i gaveva sa’ scumissià a
vardarse attorno. Tanto cossa voto che i trova? Più de qualche galinassa vecia,
gnanca più bona per el brodo, no ghe xe altro in giro! Ma questo lo digo solo
in stò momento.
Te lo giuro, io non ho fiatato,
salvo che per quelle due maledette parole che mi sono scappate ma che non ho
paura di ripetere, le ripeterei anche davanti al prete, se fosse necessario.
Può o non può scappare di dire:
"A quell’età cosa sarai più boni de fare … a letto!”
Cosa avrò detto di tanto strano?
E’ la pura verità!; a parte Bonasso che è il più giovane e che, poi, ha il nome
che lo aiuta, in fondo, a dubitare degli altri due, non ho ragione forse?
Ma te ga dito ben!, figurarse!
Piuttosto i dovaria vergognarse! Tutti sti piplò e musi duri i xe proprio na
roba in: ec-ce-den-za!.
La Maria della Cioci, che sembra
abbia messo gli occhi su Vanni Menegon, sentendo le me parole, con aria offesa
la me ga risposto che, malgrado l’età, si può stare assieme anche solo per
farsi compagnia e poi, vardandome con oci de sfida, ciòhò, la ga aggiunto:”
Siccome, io, so come fare… a letto, non è detta l’ultima parola!”
Mi no go xontà altro. Però mi
sono ripromessa di spiegare tutto alla Pasquina, che come sai è la figlia di
Arturo, non appena l’avessi rivista.
Te ghe dirà tutto? Anche che i xe
matti ad andare ancora in serca de done?
Si , proprio tutto, delle donne e
del motorino e la go incontrà, difatti.
Ho spiegato alla Pasquina per più
di un’ora, per filo e per segno, tutta la storia: di come la Fedora mette
zizzania senza che io c’entri qualcosa, e anche di quelle due parole dette in
presenza delle clienti di Maggio, del botegaro, per intenderse. Ho spiegato di
quanto più mi interessi il buon vicinato che non le loro miserevoli storie di… letto.
E la Pasquina? Cossa gala dito?
La Pasquina la ga capìo e , per
merito suo, anche Arturo me par rinsavìo.
Sul serio?
Sì, sul serio! Adesso Arturo,
quando mi vede è sorridente e mi apostrofa con Giovanna di qua, Giovanna di là.
Oh ben! Finalmente, se ga risolto
el malinteso! Te sarà soddisfatta!
Si, si! Più che soddisfatta!
Basta che non si slarghi troppo, con la be-ne-vo-len-za, e che non pensi che io,
a letto, sia come la Maria della Cioci da Basso.
Ognissanti
Il giorno di tutti i Santi mia
madre ed io, siamo andate al cimitero. A dire il vero, ci andiamo quasi tutte
le domeniche. Lei passa a salutare i suoi morti, ad uno ad uno, come se
attraverso le lapidi le giungesse ancora un po’ di vita, come se la morte fosse
una finzione.
Rassicura il suo “Vecchio”
dicendogli affettuosamente: - Guarda Nino che io non ti dimentico un istante.-
E vicino al figlio, con voce tremante, si chiede da un anno ormai: - Cosa
avremmo potuto fare di più? – Poi rassegnata si sottomette alla sorte e vuole
che anche il figlio la accetti: - Figlio mio, la malattia è stata troppo
grande. – Gli sussurra.- Dal tono della voce sembra voglia dirgli che non è
stata colpa sua se la morte ha avuto il sopravvento, che lui è stato un bravo
figlio, che ha sopportato con coraggio e dignità la lunga sofferenza.
Poi segue il silenzio del dolore
e della lacerazione di saperlo dietro la pietra.
Cerco di portarla alla realtà
rammentandole che questo è un evento con il quale tutti ci imbatteremo e che,
forse, ci condurrà ad una vita migliore di questa.
Tace, ma, dopo un po’, emette un
profondo sospiro. Capisco che si sta riprendendo.
Il cimitero si riempie di
visitatori. I familiari presidiano la tomba del proprio congiunto per ore:
tengono compagnia al morto. C’è anche un andirivieni per i saluti vicendevoli
perché in quel piccolo paese tutti si conoscono o si conoscevano. Si
imbastiscono relazioni fra i viventi favorite dalla presenza dei defunti.
Incontro la Bianca, vestita a
lutto benché sia vedova già da tanti anni. Ha il foulard annodato sotto il
mento che incornicia il suo tondo viso polesano somigliante alla fertile luna
d’agosto, indaffarata con i fiori. E’ sempre stata affezionata a me fin da
quando ero bambina. Ci abbracciamo e ci informiamo riguardo la nostra salute. Lei
deambula malamente perché ha sofferto di lussazione bilaterale dell’anca e dei
relativi interventi chirurgici che purtroppo non hanno risolto il problema.
Osserva mia madre, poco distante,
che con passo svelto si dirige verso un gruppetto di conoscenti.
- Varda to mama che drita c’la va
–
- (Guarda tua mamma come cammina
spedita)
Lo dice con una benevole punta di
invidia.
- A la so età l’è ancora in
gamba, gnint fa mi! – Sorride rassegnata.
- ‘era, Bianca, an ghe mina
rimedi per le to gambe? – Chiedo.
- Tut quel c’a ghiera da fare a
l’ho fato. – Mi risponde. Poi prosegue:
- T’sa bela, I m’a operà in
tut’do le gambe. Prima la lanca drita e po’ quela sanca, ma an go mina avu
risultato. A m’toca caminar col baston. In bicicleta no, però, in bicicleta a
vag via come el treno. L’è quand c’am fermo ch’iè duluri. – Fa un gesto con la
mano che significa: -Se tu sapessi com’è difficile tutto questo!
Intanto sopraggiunge la cognata
che mi saluta amichevolmente appoggiandomi un braccio sulle spalle. Il suo è un
viso conosciuto ma, ahimè, non ricordo il nome. Bianca mi salva dall’impaccio:
- T’sà che questa l’è la fiola
d’la Maria d’Nin Fersiti? Chiede alla cognata.
- Certo che lo so, la sorella d’
Ergilio. Come mi potrei sbagliare? Guardare lei è come rivederlo.
Gli assomiglio molto, è vero. Non
riesco a dire una parola: la gola si serra e gli occhi si riempiono di lacrime.
Ma per fortuna lei continua, con quel modo affabile tipico della nostra gente,
rivolgendosi a me come si fa con un familiare.
- E ti t’el sa chi c’a so mi? Mi
chiede.
- Sì, c’al so!- Rispondo
docilmente per compiacerla: -T’iè la fiola d’Quintilio.
A questo punto si accorge che non
ricordo il suo nome e gentilmente ribatte: -Sì,brava, mi son la Guerrina. E
prosegue: - A sem sempre sta d’fameia fin da ragasiti. To papà e to mama coi
mii iè sempre sta in gran amicisia.-
- A m’ricordo, -le rispondo – e
in particolare a m’ricordo quand c’a stivi in Polesnin, perché a’ vgnea a
catarve quasi tuti i giurni e to mama, la Ida ,faccio sfoggio di ricordare
questa volta, la m’dea sempre un toco d’pan biscoto bagnà in tl’acqua del secio
e po’ tocià in tel sucaro: che bon ch’el
iera!...
Con un velo di malinconia ci
siamo date un arrivederci.
Riaccompagno mia madre a casa,
vado a recuperare mio marito nell’orto e poi, assieme, la raggiungiamo in
cucina dove ci prepara un caffè.
Nell’attesa, osserva che mio
marito è assorto.
Infatti noto anch’io che non dice
una parola, deve essere stanco, così per riempire il suo silenzio io racconto
che la volta precedente, durante il viaggio di ritorno, si è appisolato fermo
al semaforo.
- El staga atento. Toni, a no
indromsarse. Ho fat ben a fare el cafè, alora! El gh’in beva na scudela per
piasere e, a m’racmando, el staga ben sveio col guida. El varda, c’ho sentì per
na trasmision ch’esiste na malatia c’a sva in pnea e a s’drome coi oci verti.-
Continua allarmata.
- Apnea, mama apnea. -La correggo
- E po’, gnint paura perché lu, i oci, li sera col drome.
- Ma sì valà, a p n e a, c’a so
quel c’a digo, sì!
E, la vita continua.
Marino Cacciatori “Caparin”
Era una domenica del mese di
luglio dell’anno 2002. La motonave era pronta a levare l’ancora alle nove del
mattino.
Il sole già batteva sul capo
scoperto dei pochi passeggeri, tredici in tutto. Fra questi, Nara.
Marino Cacciatori detto “Caparin”,
basso e minuto con la fronte spaziosa ed un po’ arcuata sotto l’attaccatura dei
capelli, tipica della discendenza caparina, stava sul ponte a confabulare con
un signore interessato di motori.
Ben presto si allontana dall’uomo.
Con mosse agili e sicure raggiunge la cabina di pilotaggio ed esegue le manovre
d’avvio. Poco dopo, l’imbarcazione procede speditamente al centro del fiume.
Nara temeva di fare una gita
monotona, caratterizzata da un silenzio contemplativo.
Si erano messi tutti al piano
superiore, panoramico. La giornata limpida lasciava intravedere ad Est il
promontorio di Rovigno sull’opposta costa adriatica. La signora del botteghino
invece si tratteneva al piano inferiore presso la rivendita. Scopre che si tratta
della moglie di Marino: “Poca gente oggi!” Osserva, rivolta a lei, giusto per
scambiare parola.
“No, anzi, io e Marino, siamo
contenti del numero di presenze – le risponde - a volte ci capita di fare il
giro anche per sole due o tre persone.”
“Addirittura!” Esclama Nara sorpresa.
“Capita, capita! Sa, noi partiamo
in ogni caso perché lo consideriamo un servizio. Partiamo anche se l’incasso
non copre neppure la spesa del gasolio.
E’ una donna graziosa e si
esprime con finezza.
Sopra, Marino lascia le leve di
comando ed esce dalla cabina probabilmente per riprendere il discorso con il
passeggero interessato di meccanica motoristica.
Va e viene, procurandole una
certa apprensione riguardo la rotta e la sicurezza: “Non sarà che si distrae un
po’ troppo?”, si domanda con preoccupazione.
Lui è ciarliero e di buon umore.
Sovente si apre in larghi sorrisi, noncurante della bocca sdentata. Con l’aiuto
di un altoparlante, incomincia il suo racconto del Po. Parla un italiano
corretto senza inflessione dialettale.
E’ bravo! Dal suo racconto,
capisce che lui dialoga con il grande fiume che naviga da sempre:
“Si può dire che ci sono nato in
acqua, come i pesci!” Afferma. “Si può dire che sono un pesce
anch’io!”Continua, accompagnando la battuta con una risata divertita.
Conosce profondamente il suo
fiume. Sa tutto sulla lunghezza, larghezza e profondità; sa tutto sulle
correnti e sulla configurazione dell’alveo. Sa dove e chi pesca le anguille, i
cefali. Del pesce siluro, pesce foresto, entrato in acqua per sbaglio, sa che
divora quintali di piccoli pesci. Un pensiero malinconico riserva alle gentili
scardole che: “Non se ne trova più una, neppure a sognarla!”
Il suo racconto insegue
l’itinerario degli scorci toccati, pur sempre pronto a raccogliere le domande curiose
dei viaggiatori. E’ sorprendente quante cose sappia! E’ memoria storica del
luogo dal dopoguerra ad oggi. Conosce tutto l’intreccio degli avvenimenti e dei
personaggi che hanno costruito la vicenda del Delta negli ultimi decenni.
E’ lui che accompagnava fior
fiore di ingegneri per i sopralluoghi a Polesine Camerini dove è sorta la
centrale termoelettrica che, come una cattedrale, domina il Delta del Po e
asperge, dall’alta ciminiera il veleno giallognolo.
Ma lui ne parla bene. L’ha vista
nascere. Un mostruoso gioiello tecnologico che avrebbe dovuto sgorgare fumi
depurati da poderosi sistemi filtranti.
Lui l’ama come una buona cosa,
come la fattrice di posti di lavoro e di prestigio per quel Delta sempre
dimenticato. “Con una centrale di tal sorta, annoverata fra le più grandi
d’Europa, cosa potrà più succedere al Delta? Non la lasceranno certo
affondare!” Ripeteva dentro di sé.
Affondare! Un verbo ricorrente
nella mente di Marino e di tutti gli abitanti che hanno ricordo delle
inondazioni subite. Una parola che mette paura solo a pensarla.
Era allegro Marino Caparin quella
mattina! Le battute gli sorgevano spontanee e naturali. Aveva brio ed una
garbata ironia. La sua barca, il fiume, e la Sacca del Canarin, appena
raggiunta, gli si cucivano addosso come una seconda pelle: loro aderivano a lui
e lui a loro.
Spegne il motore e lascia libera
la barca di dondolarsi nel silenzio della laguna.
“Lo vedi quel gabbiano, lì
appoggiato sulla mota oltre l’argine di sacca?” disse a Nara ad un certo punto,
quasi in un sussurro, poiché era lì affianco. “Sta aspettando me! Mi aspetta
ogni mattina!”
Nel dire così, allarga le braccia
e le flette a volo d’uccello.
Mi giro verso i compagni di
viaggio e faccio cenno con l’indice puntato in direzione della sacca e poi lo
porto verso le labbra in segno di silenzio.
Il gabbiano non reagisce. “ Ehii!
Che fai? Dormi ancora?” gli grida Marino Caparin, quindi gli mima il verso di
richiamo. Ma il gabbiano reale di Caparin è come intorpidito.
“Non mi ha ancora visto, il principino!”
Commenta. E poi, d’un balzo assai acrobatico e spericolato, si porta sul tetto
della barca e da lassù sbatte le sue ali d’uomo. Il gabbiano s’alza allora in
un volo subitaneo, festoso, lasciando la sua scia d’ombra fra i riverberi
d’acqua e di sole sulla Sacca del Canarin.
Tuffo sull’altra riva del mare
Per una
breve vacanza Nara lascia il suo paesello per l’altra costa bagnata dall’
Adriatico! Dirimpetto al Delta: la Croazia. Mare calmo e profondo. Acqua
limpida e salatissima. Le sembra di tradire, ma lui lo sa quanto lei ami
l’acqua di scoglio e poi sono separati solo di qualche miglia. Distanza marina
che divide, ma pur sempre unita dallo stesso mare. Giunge in una calda giornata
estiva, mitigata da un leggero maestrale. Si reca subito al suo scoglio
preferito, lo stesso dell’anno prima e trampolino dei suoi maldestri tentativi
di effettuare, una volta nella vita, un vero, dignitoso tuffo in avanti. Si
assesta con le piante dei piedi sul bordo più esterno del masso. Le dita si
raggrinzano nello sforzo di incollare, a ventosa, i polpastrelli e si mette in
posizione di lancio, come da precise istruzioni impartite, in anni precedenti,
da un’insegnante di nuoto. E’ ora con le ginocchia flesse, il busto inclinato
in avanti e le braccia tese verso l’alto sulla linea delle orecchie. Le braccia
devono aderire alle orecchie per evitare un impatto violento al capo. Congiunge
le palme delle mani atte a fendere l’acqua e glissare dolcemente con il resto
del corpo.
Sembra
facile! Forse per qualcuno lo è.
L’acqua
è lì sotto, a due metri da lei, nello splendore del suo verde smeraldo. E’
appena increspata e sa, per esperienza, che il leggero movimento non fa
differenza. Sa che dentro starà bene, avvolta dalla sostanza liquida,
coccolata, sorretta, alleggerita. Sarà un abbraccio totalizzante. Dentro, lo
sente, troverà un mondo amico che la sosterrà e la restituirà, subito dopo,
alla superficie e alla sua vita terrestre. Ciò che importa ora è entrare, dare
al corpo la spinta adeguata. L’attrito può essere doloroso. Ogni tuffo riserva
un potenziale rischio, ma si butta. Vada come vada, lei si butta.
E’
entrata liscia come un pesce, questa volta. Ha i polmoni ben ventilati e ne
approfitta; anziché rialzare il collo e, con un colpo di reni, portarsi in
verticale per risalire, si lascia andare ancor più in profondità. L’acqua è
sempre più verde e l’avvolge in un abbraccio languido. Ne è compenetrata:
diventa liquida. Si gira e rigira con scioltezza. Il verde è intenso con
qualche sfumatura sparsa data dagli scogli erbosi.
E’
passato del tempo, dovrebbe risalire. Invece prosegue in diagonale, sta così
bene là sotto. Lascia uscire dalla bocca bolle d’aria per compensare la
profondità. Le viene tutto naturale.
Trenta secondi saranno già trascorsi, pensa, altri venti di risalita ed
il tempo scadrà. Inizia la verticale. Lo
sforzo le fa capire che ha tardato un po’ troppo. Vede la luce che penetra ad
imbuto, sopra di lei.
« Ci
sono, quasi! » pensa. L’imbuto si allarga sempre più rischiarandosi. E’ a corto
d’ossigeno, ma c’è...., « ecco!, ancora una bracciata e… riaffioro! ».
E’ ora
dentro il cono di luce, intravede il sole. Muove solo le gambe per risparmiare
forze: « tanto ormai ci sono! », si ripete.
Prova
un bisogno urgente di respirare. Non perde la calma e deglutisce. Deglutisce la
sua anidride carbonica. Ha ancora l’energia di sorprendersi del fatto che, pur
essendo arrivata, non riaffiora. Sbraccia alla fine e si catapulta fuori!
Il pelo
d’acqua assiste imperturbato al suo affanno. La luce gioca brillii fra gli spruzzi
e l’aria riguadagna le sue cavità polmonari.
Suo
marito, dalla riva, la rimbrotta:
« Stavo
per chiedere aiuto! ».
« Ma se
va tutto bene! » risponde, « a che sarebbe servito? ».
Il barcaiolo Ninin
Un leggero dondolìo ninnola il
“batlin” sui canali palustri di Bacucco. Una coltrina di canne ondeggia alla
brezza sospinta dal mare.
A bordo del barchino hanno
appuntamento alcuni visitatori per curiosare sulle nidificazioni lagunari, fra
questi c’è una coppia romagnola: Veronica e Cesare.
Veronica è molto ansiosa di
conoscere l’estremo territorio stretto dai fiumi Goro e Gnocca, solcato da
numerosi canali ed ha coinvolto Cesare che acconsente di malavoglia.
L’ambiente si presenta piatto,
infossato fra le arginature dei corsi d’acqua. L’aria è ferma, ristagnante di
umidità. Lui ama la montagna, con l’aria fina e i panorami che spaziano dove lo
sguardo scorre fra le increspature delle vette. Gli basta una leggera bruma
mattutina per rinunciare all’escursione programmata. Anche gli altri gitanti
rinunciano temendo la foschia.
Invano Ninin, il barcaiolo, li
rassicura sulla temporaneità del fenomeno. Di lì a poco, la nebbiolina,
diradata dal sole, risalirà oltre le arginature, cederà la laguna al sole alto
ed al venticello marino. Solo Veronica, noncurante dell’inconveniente, sale sul
“batlin” attratta dal fascino del luogo sperduto, confuso tra terra ed acqua.
Ninin conosce ogni percorso e
conduce la barca remando lieve, sgusciando fra le canne in un leggero fruscio.
Nel canneto un profondo silenzio
li avvolge, appena scalfito dalle melodie della cannaiola e dell’usignolo di
fiume. Ninin si appressa a qualche nido di folaghe e tuffetti, affinché la donna possa osservare i teneri
pulcini.
Cesare, già pentito di non aver
seguito Veronica, di malumore inizia a girovagare da una sponda all’altra dei
corsi d’acqua. Argini tutti uguali. Bracci di Po tutti uguali. Un ponte di
barche bianco e azzurro sul Po di Goro. Un ponte di barche bianco e azzurro sul
Po di Gnocca. Uguali.
“Dove mi trovo ora?” Si chiede allarmato
Cesare, completamente sperduto dopo aver percorso decine di chilometri.
“Devo sbrigarmi a ritornare
all’imbarcadero!” Pensa.
Dalla strada sull’argine, scorge
l’insegna di un bar spuntare fra una fronda e l’altra di salici ondeggianti e
si ferma per chiedere di Ninin il barcaiolo.
Il locale fa parte di una vecchia
casa bisognosa di restauro. L’interno è ben tenuto, fresco di pittura, con
tavoli e sedie di legno tirato a lucido con olio paglierino. Dietro il bancone,
bottiglie di vino e liquori su ripiani in doppia fila. Bicchieri brillanti,
capovolti su graziose tovagliette candide. La macchina del caffè, traboccante
di tazzine in paradossale equilibrio. Sulle pareti, tutt’intorno, foto di
gruppo degli anni cinquanta.
Risalta, nelle persone presenti,
il contrasto fra vecchia e nuova generazione. La ragazza al banco è figlia del
suo tempo: un’acconciatura spiritosa, pearcing al naso ed all’ombelico,
rigorosamente scoperto, pronta nel servizio ma non servizievole. Nella veranda,
uomini anziani che giocano a carte come ai vecchi tempi.
L’uomo romagnolo vorrebbe
chiedere l’informazione e proseguire, senza temporeggiare. Ma i giocatori sono
concentrati sulle carte e la ragazza segue, con ritmo lento ed ininterrotto, il
suo lavoro.
“Un caffè, per favore!” Comanda
allora Cesare, per attirare su di sé l’attenzione della giovane.
Mentre lei mette in macchina
l’espresso, lui ha modo di confessare di non sapere dove si trovi e di dovere
recuperare la sua donna da Ninin il barcaiolo.
La ragazza scapigliata si rivela
molto aggraziata e fine nel rispondere all’incauto turista. Conosce bene Ninin,
lì si conoscono tutti. Prosegue illustrando all’uomo, quanto il Delta sembri
semplice, ma che invece sia imperscrutabile, più di una grande città. E spesso
succede al forestiero di disorientarsi. “Due ragazze londinesi, abituate al
traffico della metropoli inglese, si sono perse a Donzella! Quattro case,
s’immagini!” Racconta con deferenza.
Cesare rinfrancato
dall’atteggiamento civile e rispettoso della giovane e nuovamente padrone di
sé, nell’ambiente estraneo, si rilassa finalmente e comincia ad apprezzare la
giornata divenuta limpida e assolata. Sulla via del ritorno, va pensando che
avrebbe dovuto seguire Veronica, che la separazione è stata un atto arbitrario
privo di senso
Nel canneto, fra una nidiata e
l’altra, Veronica subisce il fascino di Ninin, il cui aspetto contrasta
l’etimologia del nomignolo. Ninin è alto, asciutto, ben fatto. I lineamenti del
volto riproducono canoni di antica bellezza. E’ molto attraente, ricorda i
bronzi di Riace. Gli fa domande sul perché di quel lavoro e sulla vita così
lontana dal contesto urbano, ma condizione desiderata dai giovani, in generale
Ninin non vorrebbe palesare le
ragioni delle scelte personali, ma nello stesso tempo non vuole deludere la
curiosità della donna. Così si confida: “ Anni fa, ho provato la città. Sono
stato alcuni mesi a Torino, presso parenti che vi si erano trasferiti in
seguito all’alluvione del 1960. Lontano da qui non mi riconoscevo più. Mi
sentivo estraneo a quell’ambiente. E’ per l’attaccamento alle cose di qui, al
lavoro che fu di mio padre, a questo luogo. E…non solo. E’ per l’alba che sale
da sotto l’argine e s’inerpica alta sul fiume ed il tramonto infuocato che si
spegne in Sacca.” Ammette con malcelato pudore. “Ed è anche per i branzini che
so dove pescare, per le lasagne tirate a mano dalle donne della mia famiglia,
senza fretta, con tutto il tempo necessario: la lentezza del tempo mi tiene
qui, rivela senza indugio Ninin, come se avesse letto più chiaramente in se
tesso.
Veronica ascolta attenta. Replica
con un lieve sorriso che le modella il volto in una espressione tenera.
Le parole si perdono in un
silenzio assorto. Ninin fissa lo sguardo lontano, oltre il rivolo
all’orizzonte, verso il canneto in cui migliaia di giovani steli si curvano
dolcemente alla brezza marina.
Veronica, presa dalla situazione
e da una leggera spossatezza, sente il bisogno di sdraiarsi. Si adagia su di un
fianco appoggiando il gomito sulla traversa e la mano a sostegno del capo,
quindi immerge la mano libera nell’acqua fresca del Bacucco.
Ninin continua il suo percorso
lento e silenzioso, mentre la mente di Veronica formula una sorta di preghiera
di ringraziamento a Dio per l’incantevole bellezza che le è concesso di
assaporare! Immersa in quella beatitudine, socchiude gli occhi ed inspira
profondamente il profumo del mare. Confusamente, dall’effluvio, le giunge il
profumo di Ninin che le rammenta tempi di giovinezza. Ne è sconcertata!
“ Che mi sta succedendo?” Si chiede
stupita e, nello stesso tempo, impaurita.
Inconsapevolmente, allunga le sue
belle gambe affusolate, non ancora segnate dagli anni.
“Non sono che una vecchia! E lui
un ragazzo!” Pensa con agitazione.
Ma il suo animo è già vinto da
una sensazione ineluttabile.
Ninin nota l’atteggiamento di
abbandono della donna che la rende attraente. E’ titubante, per un attimo, poi
raccoglie i remi e lascia libera la barca che va ad arrestarsi in una
strettoia. Cautamente le si distende accanto e le sfiora dolcemente la spalla.
Lei si irrigidisce. Ninin, per non metterle paura, si ritrae ed incrocia le
mani dietro la nuca. Entrambi si abbandonano al dondolìo dell’onda.
Dopo un po’ lui le cinge le
spalle. Veronica tace.
La nebbia è ormai dipanata, il
cielo è pervaso da raggi tiepidi e la brezza si è rinforzata.
Il tempo rallenta il suo battito.
Il giovane è in sintonia con il pulsare delle emozioni.
Veronica sta pensando al suo uomo
che l’attende al pontile. Da tempo il loro rapporto è diventato fraterno. La
giovanile passione, ormai spenta. Si sente agghiacciare in quella situazione
così allettante e pericolosa.
Infine impone alla sua mente un
silenzio profondo.
Non le giungono più suoni né
odori, solo il vuoto della volta celeste gravita su di lei.
Nina e Baldo
La Nina vive nel casolare Dei Dogi con Baldo, suo marito. Si è innamorata di lui quand’era
ancora adolescente.
Il Baldo, un gran bell’uomo a quel tempo, ora è
irrimediabilmente rovinato dal bere. Ma la Nina non ne è mai stata del tutto
cosciente. Di cosa sia cosciente la Nina è difficile a dirsi. Di certo, di lei
si può dire che ha degli occhi ridenti, un corpo statuario. Forte e compatta.
Un petto largo corredato da due tettone planetarie. La testa di struttura
esotica, gauguiniana, piccola rispetto all’ampiezza del busto. Corporatura
statuaria. Scolpita alla Botero. E come una scultura, nulla può turbarla, salvo
la collera del Baldo ubriaco che riesce a smorzare il suo sguardo ridente. E’
successo più volte. La gioia le si rintana in un angolo buio del cuore. Non
comprende. Emana stupore. Il Baldo apre il circuito e spegne la luce negli
occhi della Nina. Le porta via la corrente di gioia che le è naturale,
spontanea.
La Nina, quando ti parla, mantiene sempre un tono di voce
costante, calmo. Con semplicità lei ti dice
che se ne vuole andare via. Aspetta che arrivi la corriera per andare a
Loreo da sua sorella.
In paese lo sanno tutti che sua sorella non la vuole e,
come la vede, chiama gli addetti dell’assistenza sociale.
La Nina è recidiva con quel Baldo che, quando si ubriaca,
la picchia. E’ capitato pure quando le bambine erano piccine. Il Baldo
interferiva e lei si scocciava. Prendeva la corriera per Loreo per andare a
sfogarsi con sua sorella. Lasciava le bambine al Baldo alticcio finché, un
infausto giorno, sono intervenute le assistenti sociali togliendo loro le
figlie. Erano così piccine, ancora, appena svezzate dal prospero e generoso
seno della mamma. Le ripetute fughe in corriera, lei non possedeva una
macchina, sono state la sua dannazione. Almeno non ci fosse stata neppure la
corriera! - Recrimina ogni tanto la Nina! –
Ma lei cercava la libertà. Ali alla sua gioia di vivere.
Non sopportava gli effetti dell’alcol.
Per quale motivo il Baldo cedesse al bere, lei non lo
capiva. Nina è una creatura che sa vivere solo con libertà d’agire secondo
l’estro. Segue la sua indole. Vive al presente.
Baldo si dà da fare programmando la giornata,
pianificando il futuro. Va a pesca. Alleva il maiale. Tiene il pollaio, l’orto.
Nina si sceglie un diversivo di volta in volta. Non può
badare a più occupazioni contemporaneamente. Se, per esempio, trova divertente
cucinare le lasagne al forno, di quelle ce ne saranno per giorni e giorni.
Lasagne per il Baldo, per il maiale, per le galline e per lo stuolo di bastardini,
i cani meticci per capirci. Finito il giochino, la Nina si mette in ghingheri
con dei bei vestitini che si compra al mercato. Li accompagna con accessori che
spesso riceve in regalo dai polesinini. Avvia il motorino e se ne va a zonzo.
Sfila in sella al Ciao
con le vesti che si gonfiano come vele al vento. L’ultima volta che l’ho vista
indossava un paio di decolté comprate da Pavan, in centro a Mestre. Le avevo
notate sulla rivista Vogue: capretto nero con punta e rifinitura sul tallone di
vernice marrone. Le avevo pagate un occhio. Usate un paio di volte: troppo
strette. A lei stavano bene. Anche i suoi piedi sono piccoli rispetto al corpo.
Si può dire che sia dotata di due piedini di fata.
Il Baldo, intanto che lei gira col Ciao, rientrando in casa dopo la pesca o il lavoro nell’orto, si
ritrova lasagne nel piatto, lasagne nel forno, resti di lasagne del giorno
innanzi, piano di cucina imbrattato di farina, gusci d’uovo, besciamella e
tegame del ragù da rigovernare. Ci trova anche qualche gallina che sbecca, se
la Nina ha lasciato la porta aperta. Così, se gli salta la mosca al naso, Baldo
butta fuori tutto nell’aia. E poi, seduto sul pianale dell’uscio, si attacca
alla bottiglia, sconfitto dall’ira.
Mentre tracanna, lo sa che la Nina è fatta così e che in
lui è il vizio a dominare. Non ne può più fare a meno, soprattutto da quando
non sa più nulla delle bambine. Il tribunale dei minori ha deciso così: lui e
la Nina non sapranno mai il nome di coloro che se le sono prese in adozione. Sa
anche che è meglio per loro. Ma gli mancano. E, così pensando, sovrastato da un
dolore rabbioso, beve, finché il subbuglio dell’animo non si placa; finché
l’amarezza non si dissolve in un turbinio di pensieri sconnessi. Refoli di
parole, che un momento sembrano minacciosi, un attimo dopo esilaranti.
Nina al rientro lo sorprende, sovente accasciato
sull’uscio, semicosciente. Lo scuote un po’: “Toh! Guarda! Su sveglia! Prendi
il gelato che ti rinfresca!” Lo soccorre a suo modo.
Se i fumi del vino sono sbolliti, Baldo accetta il
rimedio. Fa posto a Nina sulla soglia e, stretti, fra lo stipite della porta,
consumano un momento di dolcezza.
Altrimenti, come già accennato, sono guai e Nina scappa.
Si rifugia al bar di Ugo di fronte alla fermata del pullman, sentendosi al
sicuro, in attesa che passi il mezzo per andare a Loreo.
Nell’anno che verrà
Caro
amico ti scrivo così mi distraggo un po’, anche se mi domando… a che serve
ancora scrivere. E’ già stato scritto tutto. Non c’è proprio più nulla da
aggiungere o da esplorare. Ogni produzione non è che un déjà-vu.
Ma
perché, mi chiedo, impugno una penna ed allineo una parola dietro l’altra? Ma
sì, lo so, rispondo ad un bisogno interiore. Voglio raccontare le mie emozioni.
Vedi caro amico, ci voglio essere anch’io. E non mi basta trasferire moti
profondi in pagine di quaderno per una raccolta segreta; se così fosse avrei un
ripostiglio stipato di diari.
Non
scrivo per me stessa ma voglio raccontare e nello stesso tempo desidero leggere
il racconto di altri: a questo scopo non scriverò che lettere. Lettere
indirizzate a te, sicura di essere letta e di ricevere una risposta…, nell’anno
che verrà.
Da
oggi, dunque, è questa la novità, l’ipocrisia dello scrivere per me stessa è
tramontata: scrivo per essere letta dagli amici poiché non oso presumere di
aver titolo ad essere letta da persone sconosciute. Gli amici sono una gran
panacea, ma qualcosa ancora qui non va.
Ogni
sera mi riprometto una migliore condotta per l’indomani credendoci fino in
fondo.
Domani
ridurrò la quantità di calorie della mia dieta. Uscirò e farò del moto. Una
camminata ad andatura sostenuta, sarà ciò che farò, procurandomi del benessere
al corpo ed allo spirito.
La mia
meta potrebbe essere Venezia, dove c’è chi ha messo dei sacchi di sabbia vicino
alla finestra.
La sera
non mi balena mai l’idea di levarmi di buonora con il solo obiettivo Venezia.
Sono pigra.
La sera
non penso che a distendermi sul mio letto per darmi alla lettura. Leggo. Si sta
senza parlare per intere settimane. La lettura è la mia anfetamina contro la
paura del sonno.
Concentrata
su un romanzo evito pensieri angosciosi. Mi immedesimo in quelli dell’autore di
turno. Cerco di capirlo in profondità di scavare nelle sue remote e forse
inconsce motivazioni del raccontare. Uno scrittore racconta pur sempre se
stesso che lo voglia o meno. Così conosco gente. La mia libreria è un circolo
culturale cartaceo piegato ai miei ritmi relazionali, alla mia volontà e
capacità di entrare in sintonia con i contenuti letterari.
Con la
lettura fuggo dall’ingombrante assillo della quotidianità. Fuggo dalle banalità
consolidate di un pensare convenzionale. Fuggo dal pregiudizio. Fuggo da
fraintendimenti e risentimenti di una comunicazione frettolosa, spesso malata.
E fuggo anche da me stessa eludendo la difficoltà del rapporto con l’altro. Mi
rintano sul lettone tutte le sere. Tre, quattro, cinque, sei ore. Dipende dalla
tensione. In compagnia dei miei autori preferiti a volte. Spesso con nuovi, per
ricevere emozioni e riscoprire altre interpretazioni del mondo. Interpretazioni
da condividere o semplicemente da rispettare. Fuggire attraverso la fantasia
degli autori che mi porta in ambiti sconosciuti. Solo così posso cedere
all’incognita del sonno e passare una buona notte.
Buonanotte!
E’ di
nuovo giorno.
Sono sopravissuta.
Esco di
casa.
Non
vado a Venezia.
Ho il
mio cagnolino Pepo al guinzaglio e procedo nel parco cittadino seguendolo
lentamente. Assecondo la sua natura di sniffatore di ogni ciuffetto d’erba e di
ogni radice arbustiva che incontra. Ha voluto inoltrarsi nel nudo e stretto
sentiero che taglia in due l’area ovest del parco della Bissuola. Un sentiero
formatosi dal calpestio di trasgressori della viabilità predisposta. Rimane un
po’ nascosto dalle alte chiome delle robinie.
Mentre
sosto in attesa che il Pepo soddisfi il suo olfatto, noto una figura appartarsi
furtivamente presso un arbusto. La mossa repentina mi incuriosisce. E’ una
donna che alza l’ampia gonna sulla schiena e scopre la parte inferiore del
corpo. Piega il busto a portafoglio scomparendo oltre la ruota della gonna.
Flette appena le ginocchia. Sono calamitata dalla inaspettata scena che osservo
da lontano, ma non troppo. Disto una quindicina di metri. La vedo bene da quel
sentiero dove il passaggio è frequente. Forse lei non lo sa.
La
donna così piegata perde la sua qualità di essere umano. E’ una creatura
zoomorfa. Ciò che di lei appare è il bianco ed enorme bacino solcato dall’ombra
villosa del sesso. Un fagotto con il culo per aria! E fa ciò che la premessa
promette: defeca.
Defeca,
una raffica di escrementi scuri, segmentati. Defeca come una mucca. Nel
contempo razzola del fogliame dal suolo, in fretta. Si netta.
Ma la
televisione ha detto che il nuovo anno/ porterà una trasformazione/ e tutti
quanti stiamo già aspettando/ sarà tre volte Natale e festa tutto il giorno.
Strattono
il mio cane per potermi allontanare da lì. Intanto la donna si ricompone. E’
una brunetta dal viso scarno, grazioso. Indossa sopra la gonna una camicia di
viscosa bianca a grandi fiori rossi. Ad osservarla ora, non posso capacitarmi
del fotogramma che di lei, un attimo prima, si è impresso nella mia mente.
Prosegue, verso di me, con portamento disinvolto, quasi distinto. Quelle
natiche, lattescenti e pingui, sproporzionate al resto del corpo, sembrano essersi
dissolte sotto le vesti.
Ogni
Cristo scenderà dalla croce/ anche gli uccelli faranno ritorno.
Che io
abbia sognato? Che le continue letture influenzino la mia percezione della
realtà? La brunetta cammina svelta e ci sorpassa proseguendo nel suo cammino.
Ci sarà
da mangiare e luce tutto l’anno. E si farà l’amore ognuno come gli va.
Vedi
caro amico cosa ti scrivo e ti dico. Lotto contro l’infelicità. Mi aiuto con lo
scrivere per ritrovare l’armonia interiore. Così facendo trovo la pace e posso
sentire il sussurro della natura che proviene dal giardino che ritrovo, qui, a
Borgo Polesinino.
L’hai
conosciuto giovanetto. E’ diventato un piccolo bosco e mi parla attraverso
l’abete dove sfrigolano i ramuncoli della cima carica di pigne. Poco più in
basso, nel folto della chioma, c’è un nido di tortore ben rintanato. Un altro
si trova nel ventre del pruno selvatico. Innumerevoli cannaiole vivono nella
macchia di canne di bambù, sviluppatasi a dismisura attorno al contatore
dell’acqua. E, guarda caso, esso è pure il rubinetto generale dell’impianto
idraulico di “la casina”. Ogni volta che serve chiuderlo o riaprirlo ne esco
avviluppata di ragnatele e fogliame. Provo un brivido di raccapriccio lungo il
corpo solo a pensarci, e sicuramente anche in loro, le canne, scorrerà la
repulsione verso la mia intrusione.
Un
rospo “bufo bufo”, enorme, ha la tana sotto i vasi di terracotta. Quando piove
esce.
I merli
si cibano di ficoni e di prugne. Qualche settimana fa gozzovigliavano con le
marasche. E poi c’è un via vai di coleotteri, api ed altri insetti che ronzano.
Infine… zanzare & zanzare…un’industria!
Dalla
veranda-zanzariera ce la faccio a stare all’aperto, spazio cinto ormai da una
vegetazione rigogliosa e disordinata che crea un’atmosfera selvaggia. Mi sento
fuori dal mondo.
E come
sono contenta di esser qui in questo momento
Vedi
vedi vedi
Vedi
caro amico cosa ti scrivo e ti dico…
Parole (Testo in corsivo di Elena Zerbin)
La
parola, come una divinità olimpica, nasce e vive per sempre. Nasce come viene
pronunciata o scritta, anche solo pensata, e percorre il suo eterno cammino.
Vive di forza inesauribile e si espande nel mondo producendo una catena di
relazioni fra causa ed effetto a rincorsa, trame intessute di imprevedibili e
fantasiosi orditi.
Diversi
dunque i modi di darle vita. Uno dei più seguiti è la scrittura. Basta fare una
capatina in libreria per capirlo. Nonostante ciò ci sono testi, che in libreria
non arrivano. Rimangono in un cassetto di comodino o dimenticati in soffitta.
Peggio, possono finire al macero per il riciclaggio, come mi è capitato di
sapere. Ma anche così, nel silenzio, esse vivono. Vivono del rimpianto di un
incontro perduto.
Alla
parola è concesso un suo respiro dunque. A darle alito, in questo componimento,
è un’anziana signora, nata e vissuta sempre presso le sponde del Po di Gnocca,
che ha sentito il desiderio di raccontare e mi ha affidato il suo racconto:
“Mi chiamo Zerbin Elena, sono nata a Porto Tolle
il cinque agosto del millenovecentoventuno-Ho ottantacinque anni..
Questo mio libro (quaderno) chi lo raccoglierà
spero lo tenga per una memoria. Come chiamarlo? Diario, ma non so. Vorrei
scrivere un po’ della mia vita, da quello che mi ricordo.
Ero una bambina nel 1929, in pieno inverno,
freddo, il Po ghiacciato, la gente andava qua e là sopra il ghiaccio del Po di
Gnocca.
Tempi duri, non si conosceva nemmeno cosa fosse
una stuffa a legna, bruciavamo canna e paglia, nel camino, per scaldarsi.
Nel 1930 mio fratello era andato a prestare il
servizio militare, mia mamma e mio papà e mia sorella lavoravano in risaia. Me,
andavo a scuola, ma in questo periodo mio papà si ammalò di una malattia
piuttosto brutta: il tinfo nero. Una malattia contagiosa: eravamo con il filo
tirato intorno casa. Non poteva entrare nessuno, si potevano prendere la
malattia.
Mio papà si fece ottanta giorni in letto e, io,
me lo custodivo.
Allora si pagava tutto, medicine e pure
l’ospedale.
Tempi duri, tempi neri, si lavorava tanta terra,
dieci campi di risaia, come dire, melma si zappava! Non ci conoscevamo se
eravamo persone o bestie: tutti pieni di terra sporca. E a fine anno quando si
andava a fare i conti col padrone, eravamo rimasti in debito quaranta lire. A
quel tempo erano tante; si portava a casa riso e formentone (granoturco) per
tutto l’anno, ma non bastava. Solo quello! Il pane, vino, solo una volta alla
settimana. Ho lavorato!
Nel tempo del fascismo, se volevo guadagnare la
giornata, dovevo andare a marciare, come dire: fando (facendo) uno-due il
sabato fascista!
I tempi purtroppo erano così, ma dentro me non mi
sentivo per quel fare, mi sentivo ad essere alleata con tutti e aiutarsi nel
modo più umano della nostra vita. Quello per me lo trovavo più importante.
Nel 1940 eravamo in guerra, avevamo la tessera
per comprare quel po’ che si trovava. Poco zucchero, poco di tutto, non si
trovava il sale. Il mangiare lo facevamo con l’acqua salata che andavamo
prenderla nelle valli. Tutto era razionato.
Nel 1943 l’otto settembre avvenne l’armistizio,
entrarono i tedeschi, ci facevano il coprifuoco. Alle otto di sera tutti chiusi
dentro casa. Rastrellamenti. Venivano alle case con fucile e mitra per vedere
se trovavano qualcuno che fosse scappato dalla guerra per portarli in Germania.
Aeroplani che bombardavano. Andavo a lavorare. Mi
nascondevo in mezzo il riso, nei fossi pieni d’acqua, appena fuori con la bocca
per respirare, piena di paura. Buttavano giù spezzoni. Dove andavano giù
facevano delle buche tanto larghe e di tanta profondità; mi trovai in mezzo la
risaia a cento metri di distanza dal spezzone, per fortuna la risaia era
tenera, altrimenti non so come mi avrebbero trovata: o ferita, o morta. Ancora
mi sento i brividi, che ho ottantacinque anni. Tutto è passato, ma lo si
ricorda!
Nel 1945, il 25 aprile è finita la guerra e ai 15
di dicembre mi sono sposata.”
La
signora Elena continua il suo racconto citando il susseguirsi di avvenimenti
familiari . La nascita dei figli e il duro lavoro nelle valli, assieme al
marito, dediti alla pesca, alla raccolta della canna e al lavoro nei campi.
Racconta come per lei non ci fosse mai riposo, ma quanto fosse felice nel veder
crescere i figli e nel realizzare la costruzione di una piccola casa in
muratura togliendosi dalla “baracca” dove, per povertà, erano stati costretti a
vivere fino ad allora.
Anno
dopo anno Elena costruisce la sua storia. Ora che gli anni sono aumentati e
vanno verso i novanta, fa una riflessione su come le sembra che vada il mondo :
“Siamo nel Novembre del 2007- vorrei scrivere
ancora un po’.
Mio marito il prossimo anno ha novanta anni ed io
vado per gli ottantasette.
Tutti dicono è cambiato il mondo. Io dico è la
gente, le persone che sono cambiate. C’è odio, invidia, non ci vogliamo più
bene. I figli che ammazzano i genitori, oppure i padri che ammazzano i figli.
In questo momento mi faccio delle domande ma devo
trovare anche delle risposte. Allora mi soffermo un po’ e me ne faccio una
ragione, poi mi guardo intorno. Manca il rispetto, la comprensione, l’amore
vero di parlare fra genitori e figli. Ma i genitori sono messi da parte perché,
dicono, siete vecchi e non sapete niente. E’ vero che siamo vecchi, ma io dico,
sono capaci loro di mettere in atto il cervello e farlo ragionare? Tante
persone sono anziane e sole, ma questa è una ruota che sta girando per tutti. A
questa età si ha bisogno di una parola di conforto. L’amore quello vero, il
rispetto dov’è andato a finire?
Con tutta la mia esperienza che ho fatto, e ne ho
passate tante, non capisco perché si debba vivere tanta solitudine e
incomprensione ora che c’è il benessere.”
Mentre
la leggo mi sembra di vederla. Fra di noi parliamo in dialetto, ma ogni tanto ci
esprimiamo con qualche frase in lingua italiana e rievoco l’intonazione della
sua voce:
“Elena,
abbiamo scritto le nostre parole. Ora si sono incamminate. Non conosceremo il
loro percorso. Sicuramente non cesseranno, mai più, di vivere.”
Franca Fusetti alias Nou
***
Buone Feste anche a te, mia carissima Amica con la A veramente maiuscola, e a tutti i tuoi cari!!!! :-))))
RispondiEliminaRicambio gli auguri con affetto.
RispondiEliminaL'importante che tua nuora e la tua nipotina stiano bene.
Un caro saluto,
aldo.
Carissimi auguri di Buone Feste a te, Nou!
RispondiEliminaCarissima Nou, buone feste anche a te cara amica, che Natale sia per te una serena feste e che ti porti quanto tu desideri.
RispondiEliminaChe il 2013 sia l'anno della pace che tanto se ne parla ma la pace non si vede!
Buona settimana cara amica, con un forte forte abbraccio.
Tomaso
Buonissime feste anche a te e giorni pieni e sereni. Un grande abbraccio a te e a tutte le persone che ami!
RispondiEliminaAnche il mio pc fa i capricci e non avevo ricevuto la notizia del nuovo arrivo.
RispondiEliminaImmagino che la piccola sarà al centro di queste Feste, per la gioia di voi tutti E' con piacere che contraccambio gli AUGURI a te e ai tuoi cari.
Cristiana
Voglio abbracciarti Nou per le belle parole che m'hai lasciato nel tuo ultimo commento.
RispondiEliminaSono lusinghe che mi donano gioa perchè vengono da una persona speciale quale tu sei!
Buone feste Nou!!!!!!!
Strabacini alla new entry (la piccola Anna)!!!!!!!
Auguri di buone feste anche a te.
RispondiEliminaGrazie Nou,
RispondiEliminafelice natale anche a te
Ciao cara, buone feste anche a te.
RispondiEliminaCongratulazioni,nonna due.
RispondiEliminaUn affettuoso abbraccio e tanta felicità,BUONE FESTE a te e famiglia.
Ciao Lidia.
BUONE FESTE!!!
RispondiEliminaCIAO.
Ti ringrazio carissima Nou.
RispondiEliminaTanti e tanti auguri di cuore a te e ai tuoi cari!
Un abbraccio,
Lara
ciao Nou
RispondiEliminascusami per il ritardo con cui mi congratulo per l'arrivo della Nipotina! Un mondo di bene per lei e per tutti i bambini che sono la vera gioia della vita (detto da nonna a nonna)!
Ricambio la simpatia che mi hai dimostrato e spero che avremo modo di approfondire la reciproca conoscenza.
Grazie degli auguri e buone feste anche a te!
Auguri anche a te. Natale speciale questo.
RispondiElimina:0)
Ho scritto il precedente commento dal PC dell'ufficio e non mi ero resa conto che nel post pubblicavi una raccolta di racconti.
RispondiEliminaTi faccio i miei complimenti per l'attenzione ricevuta per i tuoi scritti che, sono sicura, è ben meritata.
E ti prometto che tornerò al più presto per leggerli tutti con l'attenzione e la "lentezza" che meritano.
A presto e tanti auguri anche a te!
Non ho letto nemmeno una riga,
RispondiEliminaho stampatotutto su carta,
saranno le mie lettura di natale,
al ritorno farò un altro commento.
Intanto buon natale.
Che dire... ringrazio per i ringraziamenti!
RispondiEliminaA questo punto, devi continuare a scrivere, carissima Nou.
A proposito: in sardo "nou" significa "nuovo."
Speriamo allora che il tuo scrivere sia sempre così fresco ed appunto nuovo (personalmente, su questo non ho dubbi)!
Un caro saluto
Riccardo
buona fortuna per il 21 12 12 e speriamo di risentirci dopo per gli altri auguri
RispondiEliminaMolto carini i tuoi racconti cara Nou. Ti rinnovo gli auguri di buone feste.
RispondiEliminaOh, mamma mia, quanto ben di Dio ho da leggere durante queste feste!!! Grazie di aver condiviso con noi questo tuo dono meraviglioso.
RispondiEliminaAuguri di buona e intensa vita, con autentico slancio del cuore.
:*
Mi associo alla Cri e a molti altri sopra: tornerò in punta di piedi a piluccare un po' di racconti durante le vacanze.
RispondiEliminaDi nuovo Auguri e ancora un abbraccio, mia carissima Nou! :)
Buone Feste a chi ha saputo raccogliere questi intensi racconti, degni e significativi per essere ricordati a lungo!
RispondiEliminaGrazie Nou, augurissimi anche a Te e Famiglia.
RispondiEliminaTanti auguri e complimenti.
RispondiEliminaNon ho modo ora per poter legger i tuoi racconti Nou ma lo farò appena possibile.
RispondiEliminaSono sicura che con il tuo immenso garbo hai elegantemente scritto ogni frase, profumando i tuoi testi d'antichi ricordi!
AUGURONI Nou!
Tvb
Grazie , grazie e poi ancora grazie per la tua generosità e disponibilità!
RispondiEliminaUn bacio!
Buone Feste, Franca cara. Non ho tanto tempo, ma ci sono. Un abbraccio.
RispondiEliminaFranca, scusami se non leggo ma ripasserò con calma.
RispondiEliminaOra vengo a te con le braccia cariche di auguri e di un sereno natale a te e famiglia.
Buon natale!
Ti abbraccio.
Ti abbraccio anch'io Rosy. Buon Natale :)
EliminaRingrazio tutti per gli auguri che ricambio con gioia.
RispondiEliminaResto in incuriosita attesa delle vostre impressioni su "Quelli di Borgo Polesinino" a dopo le festività.
E' già Natale: BUON NATALE!
Un abbraccio
Nou
i miei AUGURI in super ritardo
RispondiEliminascusa, ma sono stata presa da parenti e amici, incontri, pranzi e cene e anche regali ... non tutti graditi, ma qualcuno si salva ...
un abbraccio
Complimenti Nou!
RispondiEliminaAvevo già letto la bella critica che Riccardo ha fatto dei tuoi racconti.
Ora me li stamperò tutti, anche quelli già letti, e me li leggerò con piacere.
Ti AUGURO un sereno 2013, di vero cuore.
Cristiana
Buon 2013! Cin cin all'anno nuovo che sia un anno buono per te e famiglia e per tutti!
RispondiEliminaTi abbraccio
In questi primi minuti festosi del 2013 vorei condividere virtualmente il mio brindisi con te Clicca qui
RispondiEliminaaugurandoti un buon anno sperando che ci porti tanta fortuna e salute
un forte abbraccio.
Tiziano
Cara Nou, finalmente stamattina, la prima del Nuovo Anno, ho finito di leggere i tuoi racconti. Sono meravigliosi. Credo che tu debba pubblicarli, perché hai saputo affrescare con una vivezza incredibile una parte del nostro passato che non va dimenticato.
RispondiEliminaTi ringrazio tanto per averli condivisi con tutti noi e ti auguro un Felice Anno Nuovo e un grande IN BOCCA AL LUPO per il tuo libro!
Un abbraccio,
Lara
Auguroni di buon anno.
RispondiEliminaSaluti a presto.
I miei più vivi complimenti e ringraziamenti per i tuoi scritti...
RispondiEliminaIn bocca a lupo per il libro e Buon Anno, Nou.
Grazie per questo regalo, leggerò i tuoi racconti cara Nou. Per adesso voglio solo augurarti un anno pieno di quello che desideri. Un abbraccio.
RispondiEliminaHo scoperto che sei anche una scrittrice. Sono onorata di conoscerti e sono emozionata nel leggerti. Comprendo anche come Riccardo sensibile e colto com'è lui possa averti apprezzato come meriti.
RispondiEliminaE' un regalo che hai fatto a tutti noi, grazie e auguri cari di Buon Anno. Un abbraccio.
Nota il commento continua a tenere il nome di rosapesco che è il link che avevo adottato con google, ma che uso solo per alcuni forum su giornali, anche se ho tentato di modificarlo con quello che uso normalmente su piattaforma wordpress: speradisole. Non sono un gran tecnico del pc e non insisto oltre. Ciao.
Buon anno nuovo!!:-)
RispondiEliminaCara Nou, sono felice di conoscerti! Complimenti per i deliziosi racconti e ti auguro un Buon Anno di sinistra con le dolci musiche di Lucio Battisti!!
RispondiEliminaCiao:))
VI RINGRAZIO TUTTI CARISSIMI AMICI, PER GLI AUGURI E PER LA VOSTRA VICINANZA.
RispondiEliminaRINGRAZIO CHI HA DEDICATO IL SUO TEMPO ALLA LETTURA DEI MIEI RACCONTI E CHI LO FARA' QUANDO POTRA' O VORRA' SE GLI PIACERA'.
IO HO IMPIEGATO MOLTO TEMPO A SCRIVERLI, SOGGETTA AL TEMPO DEI MIEI RICORDI E FORSE ANCHE ALLA MIA INNATA LENTEZZA.
NON MI MERAVIGLIO DELLA LENTEZZA E LA COMPRENDO.
NOU
Cara Nou,anch'io sono stata lenta ma ne è valsa la pena.Sei bravissima e,i tuoi racconti mi ricordano anche la mia infanzia.Non posso dirti il racconto più bello perchè tutti hanno una loro attrazione e magia.
RispondiEliminaComplimenti amica mia,sei un genio grazie Lidia.
Cara Lidia, ho letto da qualche parte che lo scrivere è un atto creativo che porta in superficie la nostra profonda identità, la quale rimarebbe sconosciuta anche a noi stessi: un'introspezione benefica. Anche tu lo fai egregiamente.
RispondiEliminaTi ringrazio e ti abbraccio Nuo.