Da la Tribuna di Treviso articolo di Giorgio Pullini Qui
COSÌ SI RACCONTA LA DOLCE
FOLLIA DEL NOSTRO VENETO
«Saggezza e follia, rabbia e rassegnazione, orgoglio e malinconia
sono i tratti del nostro carattere che gli scrittori hanno rivestito di
colorite metafore»-e ancora-
Un fondo di saggezza e di
misura, con strappi di stravagante trasgressione.
Già molti studiosi (da Piovene
a Frasson, dalla Chemotti a Cesare de Michelis) hanno osservato come «La
letteratura veneta (...) ha qualcosa di periferico rispetto alla letteratura
italiana e alle sue centrali ideologiche»; ma che, nello stesso tempo, sarebbe
improprio volerne fissare dei caratteri generali, al di fuori dei tratti
specifici di ogni singolo scrittore o, tutt'al più, di singole città,
soprattutto nel contrasto, spesso marcato, tra capoluogo regionale (Venezia) e
città della terraferma.
Qualche caratteristica
generale potrebbe, al massimo, consistere nel rifiuto di una ripresa diretta,
fortemente realistica, del vero, per una interpretazione ammorbidita nei
riferimenti allusivi, fino all'estremistica affermazione di Piovene che, nel
Veneto «ogni scrittore è un cacciatore solitario delle proprie ombre» e che
«Nell'insieme (...) questa letteratura potrebbe intitolarsi: quello che il
Veneto ha taciuto».
Ad uno sguardo panoramico
dell'ultimo cinquantennio, e procedendo per temi e tendenze espressive più che
per luoghi di origine, si può constatare come nessuno scrittore riesce a stare
dentro un'etichetta; e come ciascuno offra un volto poliedrico, pur presentando
certi caratteri più marcati di altri. Guerra, paesaggio, sensualità, ambiguità
di coscienza, mondo contadino, autobiografismo, romanzo storico, romanzo di
costume, surrealtà, ironia: ci sono tutti, o quasi, i motivi e i nodi del
nostro secondo Novecento. Ma, appunto, con discrezione, e sfumature tutte
particolari, la guerra, anzitutto: da Comisso a Berto, da Bedeschi a Rigoni
Stern, dalla prima mondiale all'ultima. Comisso la rivive (Giorni di guerra)
come un'avvenutra all'aria aperta e una forma di cameratismo; Berto ne intuisce
i risvolti tragici (Il cielo è rosso), ma con una tenerezza adolescenziale di
sentimenti solidali tra ragazzi sperduti; Rigoni Stern (Il sergente nella neve)
dipinge una Russia di cordiale fratellanza tra fronti e popoli diversi. E, in
tutti, il paesaggio si apre confortevole e sensibile, pur nelle diverse
angolazioni di stagione ed i condizione di vita. Ed ecco che, allora, Comisso
immette in questa tematica la sua bifronte vocazione tra attaccamento alla
terra natale e impulso di nomade in giro per il mondo, ricostruendo una sua
frastagliata autobiografia di trevigiano contadino e di inviato speciale fino
ai confini dell'Oriente più esotico: con punte di sensuale erotismo che si
accende soprattutto verso l'acerba gioventù. Dando, cosi, la mano
all'eccentrico Buzzati di Un amore (una storia alla Moravia) e all'ultimo
Parise di l'Odore di sangue. Ma, salvo per questa Isola sensuale, Buzzati si
distingue, invece, per la sua irta propensione al racconto metaforico e al
paesaggio simbolico, tra monti spettrali e attese spasmodiche di scommesse
impossibili con il destino (Il deserto dei tartari): all'opposto del terragno
Comisso. E Parise attraversa fasi diverse, dalle allucinazioni iniziali (Il
ragazzo morto e le comete) al simbolismo sociologico de Il padrone, fino al
lirismo naturalistico degli eleganti e conclusivi Sillabari. Personalità
opposte, che in qualche momento della loro parabola trovano accostamenti
imprevisti: «Saggezza e follia, rabbia e rassegnazione, orgoglio e malinconia
sono i tratti del nostro carattere che gli scrittori hanno rivestito di
colorite metafore».
Un fondo di saggezza e di
misura, con strappi di stravagante trasgressione. Piovene innesta il suo
introverso e ambiguo moralismo, da Lettere di una novizia ai finali e
catastrofici bilanci di Le stelle fredde, in ambienti di torbida borghesia.
Mentre Meneghello e Camon sondano i sostrati contadini, l'uno (Libera nos a
Malo) con ironica deformazione del linguaggio dilettale, l'altro (Il quinto
stato) con secco «a fondo» nell'ancestrale condanna alla miseria. Due modi
contrapposti per mettere a fuoco una realtà rurale arretrata, e soffocata dal
conformismo sociale e culturale. E Cibotto dà loro la mano nel ritrarre
dapprima con bonaria ironia, ne La coda del prete, un piccolo mondo clericale;
e poi, con scarna forza documentaria (La rotta) le vicissitudini dello
straripamento del Po nel Polesine.
Venezia, in questo contesto
articolato e dialettico, si ritaglia il suo angolo appartato, tra luminosità
visiva (Diego Valeri prosatore) e indagine critica dei propri mali naturali e
strutturali (Paolo Barbaro con il suo vasto ciclo dedicato alla città). Mentre
Pasinetti articola i suoi romanzi tra saghe familiari e nobilitari (Rosso
veneziano) e cicalecci goldoniani di magistrale orchestrazione (Dorsoduro).
Sotto i quali serpeggia, appunto, un cumulo di verità nascoste e indicibili.
Sulle quali, invece, snoda le sue storie di ambiente con elegante
«savoir-faire» il più mondano Salvalaggio. Quando, addirittura, non c'è chi,
come Ongaro o Della Corte, dà fiato a visionarie vicende storiche in visionarie
quinte teatrali. Ma, allora: dove finisce la visionarietà di certo Buzzati
bellunese e comincia la visionarietà di certi veneziani di seconda generazione?
I confini si confondo e mescolano, come si confondevano quelli tra la
sensualità di Comisso e di Parise, tra l'ironia grottesca di Meneghello e la
drammaticità di Camon. E il Berto della psicanalisi riassunta in chiave
autoironica nel Male oscuro dà la mano a Camon, anche lui, episodicamente
aperto alla scienza del «profondo io» in La malattia chiamata uomo. E il
cicaleccio paravicentino di Neri Pozza è poi molto lontano da quello lagunare
di Pasinetti?
C'è poi una più recente
generazione di narratori, da Bettin a Bugaro, da Franzoso a Scarpa, da Carlotto
a Mozzi, da Marinelli a Trevisan. Inquietante, più spericolata e spregiudicata,
come del resto la generazione «ultima» in Italia e nel mondo. De Michelis la
vede in stretta connessione con la narrativa extra regionale, «più vicina alle
esperienze di tanti altri coetanei sparsi ovunque in Europa». Ma, accanto alla
crisi esistenziale, che i «nuovi» condividono con i giovani del mondo, e agli
sperimentalismi espressivi che mettono a prova, la Chemotti, con la sua lente
di ingrandimento di lettrice specialistica, individua ancora in loro, un
«incontro con i luoghi e con i paesaggi della realtà veneta». Come dire, che,
pur con l'occhio oltre i confini, anche i nuovi narratori conservano radici nel
loro ambiente e nella loro parlata, con quel misto di buon senso quotidiano e
di follia evasiva che ha sempre contraddistinto la cultura e la sensibilità
veneta: la nostra dolce follia.
Da un articolo di Giorgio Pullini, il carattere e la cultura veneta
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